In altre parole, per restare al titolo della trasmissione televisiva di cui è stato ospite, Romano Prodi ha rivendicato orgogliosamente il suo “metodo” di tessitore, diciamo così, preferendolo a quello proposto da Dario Franceschini nell’officina romana, all’Esquilino, adottata come ufficio con una fantasia da romanziere, quale lui è con un certo successo che gli va riconosciuto. E che potrebbe costituire, male che vada in politica, la stessa uscita di sicurezza che è stato il giornalismo misto alla Tv e al cinema per Walter Veltroni. Di cui Franceschini fu a suo tempo vice segretario nel Pd.
Di fronte allo scontro ormai in corso al Nazareno e dintorni fra l’andare divisi alle elezioni, nell’area del cosiddetto centrosinistra, per raccogliere più voti e cercare di allearsi dopo, a tavolino, come vorrebbe Franceschini, e l’andare invece uniti già alle elezioni con tanto di programma concordato, fossero pure le 300 pagine dell’Unione del 2006, come ha riproposto Prodi dicendo che divisi non si va lontano, si rischia di giudicare con criteri morali che Benedetto Croce contestò in politica con l’autorevolezza che si era già conquistato.
Il metodo Prodi è trasparente di sicuro. Ed anche coerente con lo spirito maggioritario della riforma elettorale che segnò il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica non meno del ciclone giudiziario di “Mani pulite”.
Il metodo Franceschini sa più di furbizia che di trasparenza. E si sarebbe perciò portati a non preferirlo a quello di Prodi. Ma è anche vero che il metodo Prodi non gode di buona storia.
Il professore emiliano, è vero, vinse due volte -nel 1996 e nel 2006- su Silvio Berlusconi e il centrodestra, ma in entrambe le occasioni i suoi governi durarono o poco più o poco meno di due anni. La seconda volta la sua crisi si trascinò appresso la legislatura con le elezioni anticipate. E in quella precedente la legislatura si era salvata, arrivando addirittura alla scadenza ordinaria del 2001, non per una ricomposizione miracolosa dell’Ulivo, ma grazie alla fantasia, chiamiamola così, dell’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Che aveva improvvisato dal suo seggio di diritto e a vita al Senato un partito di transfughi dal centrodestra per permettere l’arrivo di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi, poi sostituito da un Giuliano Amato di seconda edizione, dopo quella voluta o permessa da Bettino Craxi nel 1992.
Con quell’operazione, che forse Franceschini sogna immaginando una rottura del centrodestra con la fuoruscita di Antonio Tajani, la buonanima di Cossiga andò ben oltre la elasticità, diciamo così, attribuita alla lontana e immeritatamente odiata prima Repubblica. Quando, diversamente dalla storia percepita, gli elettori erano sempre andati alle urne, dal 1948 al 1992, sapendo cosa avrebbero fatto i loro partiti dopo il voto. Persino la cosiddetta “solidarietà nazionale” fra Dc e Pci nel 1976 era nel conto dopo il rifiuto del Psi di Francesco De Martino di fare maggioranza con i democristiani senza i comunisti.