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Giustizia, perché il Pd sbaglia i conti sul referendum

Il Pd di Schlein gongola troppo in vista del referendum sulla giustizia... I Graffi di Damato.

Claudio Petruccioli, 84 anni e mezzo vissuti fra generose illusioni comuniste e amare delusioni post-comuniste, tanto da ammettere, parlandone col Foglio, di votare per il Pd ma di sapere sempre meno spiegarne perché, si è fatta un’idea precisa sulla ragione invece per la quale i suoi amici e compagni si sono schierati parlamentarmente e referendariamente contro la riforma costituzionale della giustizia. Che ieri il Senato, nell’ultimo dei quattro passaggi richiesti fra le due Camere ha approvato con 112 voti favorevoli, 59 contrari e 9 astenuti.

La riforma, tra separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, la divisione in due del Consiglio Superiore della Magistratura, il sorteggio anticorrentizio per comporli e un’alta corte disciplinare per le toghe abituate invece a giudicarsi da sole, sarà invece approvata nel referendum confermativo di primavera dall’ex parlamentare della sinistra. Coerente – ha ricordato sempre al Foglio lo stesso Petruccioli – con la separazione delle carriere giudiziarie da lui sostenuta nella commissione bicamerale per la riforma della Costituzione preseduta a suo tempo non da qualche esponente di destra, ma da Massimo D’Alema in persona.

Il Pd è oggi contrario, secondo Petruccioli, solo strumentalmente, scommettendo su una bocciatura referendaria propedeutica alla crisi e caduta del centrodestra guidato da Giorgia Meloni. Un po’ come il Pci dei suoi tempi – me lo permetterà Claudio di ricordarlo – fra il 1984 e il 1985 scommise sul referendum contro i tagli anti-inflazionistici alla scala mobile dei salari, pur finalizzati alla difesa del valore reale dei salari, inseguendo la sconfitta e la caduta del governo del socialista Bettino Craxi che li aveva voluti. E che uscì invece vincente dalla partita.

La strumentalizzazione politica del referendum sulla giustizia come assalto al governo non è stata rimproverata al Pd solo da Petruccioli ma, pur non nominando il partito della Schlein, anche da un magistrato già diventato un testimonial della causa dei suoi colleghi: il capo della Procura della Repubblica di Napoli Nicola Gratteri. Che, parlandone pure lui al Foglio, ha detto e promesso: “Mi batterò contro la riforma, ma non contro Meloni”. “Se al referendum vincesse il no, non ci sarebbe nessuna ripercussione sull’esecutivo”, ha aggiunto Gratteri, immagino con quanta sorpresa, a dir poco, della segretaria del Pd Elly Schlein e affini al Nazareno e dintorni, dove sognano la caduta della Meloni come alle Botteghe Oscure, ripeto, 40 anni fa di Bettino Craxi. Di cui i comunisti denunciavano la pretesa dei pieni poteri come i senatori del Pd hanno fatto con i loro cartelli contro Meloni e il suo governo ieri nell’aula del Senato mentre la maggioranza applaudiva il risultato della votazione finale sulla riforma della giustizia. O “della magistratura”, come ha detto il non più mitico Antonio Di Pietro parlandone al Fatto Quotidiano e ribadendo la decisione di votare sì al referendum, pur infastidito dalla intestazione della separazione delle carriere giudiziarie e di tutto il resto alla memoria di Silvio Berlusconi da parte di familiari, amici e devoti.

In conclusione, direi che a viaggiare con le vertigini sul referendum come sulle montagne russe sembra destinato più il Pd che il governo.

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