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Il Pd di Schlein sta azzeccando le mosse alle regionali?

Come si sta muovendo il Pd di Schlein in vista delle elezioni regionali. Il corsivo di Damato pubblicato sul quotidiano Libero.

Con tutto quello che accade nel mondo, pur a tanta distanza apparente da noi, a 2300 kilometri da Kiev, 2340 da Gaza, 2400 da Mosca, 7200 da Washington e 8240 da Pechino, la segretaria del Pd Elly Schlein non è mai stata felice come in questi giorni. Anche più di due anni fa, quando riuscì forse a sorprendere anche se stessa arrivando al vertice del maggiore partito di opposizione, sostenuta più dagli esterni che dagli interni, più dai passanti che dagli iscritti. Che le avevano preferito Stefano Bonaccini.

La Schlein è ormai fuori dai panni, senza tuttavia regalarci o infliggerci la sua nudità, perché in “tutte” le sei regioni in fila per il rinnovo autunnale delle loro amministrazioni, lei è riuscita a predisporre, con tanto di candidati alle presidenze, il cosiddetto campo largo dell’alternativa, che vorrebbe essere anche nazionale, al governo di centrodestra guidato da Giorgia Meloni. “Fatevene una ragione”, ha gridato alla premier e alleati, che avrebbero finito di giocare e vincere sulla sinistra e dintorni a causa delle sue divisioni.

Gli accordi, almeno quelli nominali, pur mettendo nel conto la componente più lontana e sofferente, che è quella di Carlo Calenda, sono stati possibili per i loro confini locali. Se nelle trattative si fosse solo affacciata la politica estera, in modo concreto e non generico o retorico come l’invocazione alla pace, le intese sarebbero mancate tutte. Come mancherebbero, a dispetto della fiducia, delle scommesse e delle dita alzate della Schlein, a livello nazionale. Almeno su questo la Schlein dovrebbe convenire. E non alzare le spalle, come fa da mesi, fra le rasoiate di protesta dell’ex senatore, capogruppo, tesoriere del Pd Luigi Zanda. Che prima ha chiesto addirittura un congresso anticipato per definire la politica estera del partito, poi un mezzo congresso come sarebbe la solita assemblea di tema, infine una riunione quanto meno della direzione al Nazareno. Non ottenendo naturalmente nulla, e mettendosi in paziente, martirologica attesa dell’appuntamento che la segretaria e i suoi astuti consiglieri, prendendo il peggio delle vecchie abitudini democristiane e comuniste, ha dato a tutti dopo cioè le elezioni regionali, con la forza che spera di ricavarne.

Intanto, all’interno del cosiddetto campo largo, contestato da Giuseppe Conte già nella sua denominazione, preferendogli il campo “giusto”, affollato di “progressisti indipendenti”, anche l’uno dall’altro, lo stesso Conte da secondo per nulla rassegnato incassa politicamente qualcosa ogni giorno e si allena alla resa de conti finale, se e quando arriverà. Cioè quando, prima o dopo le elezioni politiche generali per il rinnovo delle Camere, secondo i tempi e le procedure dell’ennesima nuova legge elettorale di cui si occupano per ora solo i retroscenisti, lo stesso Conte e la Schlein potranno o dovranno giocarsi la carta intestata di Palazzo Chigi, se non vi dovesse essere confermata Giorgia Meloni, magari per il successivo salto al Quirinale. Dove si attende l’arrivo della prima donna Presidente dalla nascita della Repubblica.

In sede regionale, cioè locale, per tornare all’argomento di partenza, che è lo scenario internazionale, la cosiddetta geopolitica, i problemi più spinosi che hanno dovuto affrontare Schlein, Conte, Bonelli, Fratoianni, Renzi, Calenda e loro delegati sono stati al massimo quelli di qualche inceneritore da ereditare o demolire e della lotteria ridotta del reddito di cittadinanza.

Nessuna regione, almeno sino ad ora, salvo una ulteriore riforma del titolo quinto della Costituzione, dispone di un dipartimento o assessorato alla Difesa, da convertire eventualmente in Guerra, sempre con la maiuscola, come ha appena fatto Trump negli Stati Uniti col Pentagono mandando un usciere e cambiare la targa alla porta del competente segretario di Stato. E saldando così i conti col presidente cinese gonfiatosi ulteriormente godendo la parata di Pechino. Molto piaciuta anche all’ospite italiano che era l’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema, l’unico comunista italiano – o post comunista – giunto a suo tempo a Palazzo Chigi.

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