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Giorgetti

Il Pd festeggia ma il campo largo è meno largo

Vittorie e prospettive del Pd dopo i ballottaggi. I Graffi di Damato.

 

Per gli addetti ai lavori, i fedelissimi dei partiti o simili, che sono nel nostro caso una pur consistente minoranza del corpo elettorale – variabile tra il 41 e il 42 per cento recatosi alle urne nonostante le fortissime tentazioni a disertarle ancora di più – la partita dei ballottaggi comunali si è risolta a favore del Pd di Enrico Letta. Così ha prudentemente titolato Repubblica evitando di sposare e tanto meno rilanciare la lettura che lo stesso Letta ha dato del risultato cantando vittoria per il “campo largo” comprensivo dei grillini. I quali il massimo che hanno dato è stato un supporto praticamente gratuito, non avendo potuto reclamare e tanto meno ottenere neppure uno straccio non dico di sindaco, ma – temo per loro – neppure di vice sindaco o di assessore di rilievo nelle trattative, se mai vi sono state, propedeutiche ai due turni di elezioni amministrative.

Se non proprio il cappotto, peraltro fuori stagione davvero in questa estate torrida, con 13 sindaci nei 13 capoluoghi di provincia e di regione in cui si è votato, Enrico Letta si è confezionato un gilet con 7 vittorie, contro le sole due conseguite nelle analoghe elezioni di cinque anni fa. La città trofeo del turno è stata decisamente Verona col volto e il nome del campione sportivo Damiano Tommasi.

Per il centrodestra vale il titolo impietoso, da certificato, del Giornale della famiglia Berlusconi con un tantino forse di soddisfazione per le condizioni alle quali lo hanno ridotto tutti quelli che si contendono la leadership, l’eredità e quant’altro del fondatore, Cavaliere, ex presidente del Consiglio: “L’ultimo harakiri”. Ormai sembra mancare solo l’ordine finale di sciogliere le righe scommettendo sotto sotto, ma molto sotto, su qualcosa nemmeno di studiato ma di casuale, molto casuale, prodotto da quella specie di magma di centro, almeno a parole, cui si è appena aggiunto potenzialmente il ministro ex grillino degli Esteri Luigi Di Maio. E ciò specie se se lo lascerà portare via del tutto Enrico Letta con tutti quei salamelecchi che continua a riservare al “campo largo” con lo sfiancatissimo, esangue conte di ciò che è rimasto del MoVimento 5 Stelle e di tutto il suo contenzioso interno. A capo del quale non riesce ormai a venire neppure Grillo con i suoi collegamenti telefonici col Consiglio Nazionale e le missioni a Rona. Dove già da tempo, del resto, egli arriva per contemplare le rovine dei Fori Imperiali.

È un po’ un torto anche alla sua professione una volta di successo l’importanza che Grillo continua ad attribuire al divieto di un terzo mandato – ed anche ad eventuali eccezioni rivendicate da Conte – in una situazione del Movimento e, più in generale, del quadro politico che lascia ben poche speranze a chiunque vorrà tornare o solo approdare per la prima volta nelle nuove e tagliatissime Camere, dopo la riforma tanto voluta dagli stessi pentastellati e festeggiata in piazza con forbici gigantesche di carta sventolate come vessilli.

Per fortuna anche degli addetti ai lavori l’Italia in questa continua evaporazione dei partiti continua ad essere governata da Mario Draghi. Che al G7 di Monaco – parlando con Biden, Macron, Sholtz della maledetta guerra in Ucraina che Putin continua a cavalcare minacciosamente contro tutto l’Occidente, sperando prima o dopo di spaccarlo con qualcuno dei missili che è tornato a lanciare anche contro Kiev, non bastandogli il Donbass ormai incenerito – avrà avuto ben poca voglia di occuparsi delle notizie provenienti da Roma sui ballottaggi comunali. E sui possibili effetti sulla sua maggioranza nel lungo scorcio della legislatura cominciata cinque anni fa, mentre lui presiedeva ancora la Banca Centrale Europea, con la “centralità” dei grillini. Ora la centralità rimasta – piaccia o non piaccia – è solo quella di Draghi, o dei partiti che gli vengono attribuiti.

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