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Pashtun

Il ruolo dei pashtun in Afghanistan

L’aspetto della vendetta tra l'etnia pashtun in Afghanistan continua a non essere ben compreso dagli occidentali, soprattutto da quelli appartenenti a Paesi in cui tale pratica non è in uso. L'analisi di Giuseppe Gagliano.

 

Sulla maggior parte dei quotidiani italiani si parla dei pashtun. Ma chi sono e quale ruolo hanno svolto?

I pashtun sono un gruppo etnico-linguistico senza Stato attualmente costituito da circa cinquanta milioni di persone (la maggioranza in Pakistan e in territorio afghano). I pashtun furono divisi tra due Paesi quando, nel 1893 i britannici decisero di stabilire la linea Durand (osserviamo di passaggio il ruolo destabilizzante del colonialismo inglese nell’Ottocento!) .

Oltre alla varietà etnica presente in Afghanistan tra i pashtun, i tagiki, gli hazara, gli uzbeki e i turkmeni, nel suo saggio “Così si controlla il mondo“ (Rizzoli) il colonnello spagnolo Pedro Banos sottolinea come solo tra i primi sono state identificate sessanta tribù diverse e dalle quali nascono altre quattrocento sottotribù, anche queste differenti tra loro. Con una struttura politica che risponde soltanto alla famiglia o al clan, questo gruppo è sempre stato orgoglioso della propria indipendenza, per cui non ha mai accettato il leader afghano di turno che, nel corso degli ultimi centocinquant’anni, è stato quasi sempre imposto dall’esterno.

Le uniche leggi che imperano tra questa gente – con oltre cinque secoli di storia che alcuni allungano a 2.500 anni, dal momento che già lo storico greco Erodoto li aveva collocati su queste terre – sono quelle che emergono dal loro codice non scritto, il pashtunwali, dove sono raccolti i principi che costituiscono i veri valori fondanti della loro società: melmastia, il dovere dell’ospitalità; nanawatai, dare asilo e rifugio al fuggitivo; badal, la vendetta di fronte a qualsiasi insulto, furto, offesa alla reputazione personale o della famiglia, o per aver ferito o ucciso un familiare.

L’aspetto della vendetta continua a non essere ben compreso dagli occidentali, soprattutto da quelli appartenenti a Paesi in cui tale pratica non è in uso. In particolare nei Paesi di tradizione cattolica è quasi impossibile capire il significato profondo della vendetta: quando qualcuno è vittima di un affronto, anche grave, la reazione che è sempre stata inculcata è quella del perdono, non la ricerca di una soddisfazione attraverso ritorsioni personali. Ma quando un pashtun ritiene di aver subito un’offesa, soprattutto nel caso della morte di una persona cara, è costretto a vendicare l’affronto, per quanto tempo possa essere passato. Esattamente come avviene anche in altre culture: sebbene infatti alcuni vogliano associarla alla religione, in questo caso all’islam, la vendetta è un fenomeno radicato nella tradizione culturale, più che in quella religiosa. Tuttavia questo è un aspetto che si dimentica troppo facilmente, quindi, ogni volta che viene attaccato o bombardato un insediamento pashtun, la sua gente è chiamata a rivalersi contro gli autori del gesto o i cittadini del Paese che l’ha oltraggiata. Così, invece di risolvere i problemi, già di per sé molto complessi in questa parte del mondo, questi vengono acuiti e radicati.

Insomma dobbiamo comprendere – e Dario Fabbri e Lucio Caracciolo lo hanno giustamente sottolineato su Limes – che i nostri valori non sono né universali né oggettivi, ma sono valori nati e sorti in determinati contesti storici come per esempio illustre egregiamente Marcello Flores in un saggio del Mulino dal titolo “ Storia dei diritti umani“.

Lo stesso Winston Churchill – le cui responsabilità nell’ambito della destabilizzazione coloniale in Medioriente sono tutt’altro che marginali – dopo un soggiorno in Afghanistan nel 1897, descrisse le sue impressioni sui pashtun in termini che possono essere applicati anche oggi: “Eccetto che al momento del raccolto, quando l’autoconservazione si giova di una tregua temporanea, le tribù pathan [pashtun] sono sempre impegnate in guerre private o pubbliche. Ogni uomo è un guerriero, un politico e un teologo. Ogni grande casa è una vera fortezza feudale […]. Ogni villaggio ha il suo apparato difensivo. Ogni famiglia coltiva la propria vendetta; ogni clan la propria faida. Le numerose tribù e combinazioni di tribù hanno tutte conti da sistemare l’una con l’altra. Nulla viene mai dimenticato, e pochissimi debiti rimangono non pagati.

E nonostante questo, ci sarà sempre chi si intestardirà a voler sottomettere un popolo indomabile, che potrà essere vinto solo annientandone ogni singolo membro. Siccome questo è ovviamente impossibile e inaccettabile, chi si ostinerà a provarci non otterrà altro che di andare a sbattere più e più volte contro il muro umano costituito dal fiero popolo afghano.

Altrettanto interessante è la recente intervista del Colonnello, che descrive il discorso di Biden come “deplorevole” perché “non ricorda gli alleati” che hanno combattuto a fianco degli Stati Uniti nella guerra in Afghanistan. Vent’anni dopo, il presidente degli Stati Uniti sostenne che l’intenzione non era quella di portare la democrazia, ma di garantire esclusivamente la sicurezza degli Stati Uniti.

Inoltre, Baños critica che, dopo aver speso 100.000 milioni di dollari per addestrare e armare l’esercito e la polizia afghani, si è scoperto che non erano abbastanza efficaci nel pacificare l’Afghanistan o che non avevano alcun interesse in esso.

In realtà ci sono molte ragioni dietro l’inefficacia delle truppe afgane, inclusa la profonda corruzione a tutti i livelli dell’amministrazione, compresa la polizia. Allo stesso modo, c’erano “elenchi di soldati fantasma” in cui apparivano soldati che esistevano e non andavano a lavorare, ricevevano semplicemente il loro stipendio, o addirittura neppure esistevano. D’altronde, precisa il colonnello, c’erano molte ragioni per diffidare: infatti gli eserciti stranieri hanno prodotto diversi rapporti interni in cui hanno avevano già avvertito cosa sarebbe successo quando si fossero ritirati dal paese. Per quanto concerne le recenti dichiarazioni dei talebani il colonnello è molto chiaro da questo punto di vista:

“Per quanto i talebani proclamino un’amnistia generale, è difficile da credere”, afferma Baños, il quale spiega che la maggior parte dei rifugiati afgani in fuga cercherà rifugio nei paesi vicini come Iran, Pakistan o altri paesi.

Il colonnello ritiene che i talebani agiscano “molto abilmente” utilizzando i social network per inviare messaggi di calma, tolleranza e una certa apertura. Vogliono dare l’impressione di essere qualcos’altro. Ma il timore fondato è che che si tratti semplicemente di “un lifting”.

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