Quattro ore di discussione ed un finale a sorpresa. La seduta di Palazzo Marino, il municipio di Milano, che finisce a seguito della fuga dei consiglieri. Alla fine ne rimangono una quindicina. Mancanza del numero legale e, quindi, rinvio. Nelle condizioni date non c’è nemmeno spazio per la replica del sindaco, Beppe Sala: bersaglio di critiche spietate da parte dell’opposizione, e di un appoggio, pieno di “se e di ma”, da parte degli esponenti della sua maggioranza. Ma così è la vita o meglio il tran tran della politica guerreggiata.
All’interno della sala ad aleggiare non era lo spettro descritto da Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista, ma l’invasione di campo della magistratura milanese, chiamata all’ingrato compito di difendere il principio di legalità. Ed esigere il rispetto di quelle forme, che rappresentano il sale di ogni Stato di diritto. Fuori nella piazza antistante il municipio, una discreta folla preoccupata ed irritata. Preoccupata per i cantieri posti sotto sequestro o fermati. Per i soldi anticipati per l’acquisto di una casa al momento in forse. Irritata contro una politica fin troppo facilona, incapace di misurarsi con le complessità del governo del territorio.
Nei vari interventi, compresi quello del sindaco, la voglia di esorcizzare il dato giudiziario. Non entrerò nel merito dell’indagine. Spetterà alla magistratura trarre le necessarie conclusioni. Posizione difficilmente sostenibile. Se il consiglio comunale era riunito, lo si doveva proprio a quell’intervento. Al fatto che alcune procedure non erano state rispettate. O che certe decisioni erano risultate inquinate da fattori estranei. Logica avrebbe voluto, pertanto, che già in quella sede fossero fornite risposte più o meno rassicuranti. Ma ciò non è avvenuto. Anzi le annunciate dimissioni dell’assessore Giancarlo Tancredi si sono mosse in una direzione opposta e contraria.
All’inizio, lo stesso Beppe Sala aveva giocato la carta del tatticismo. Non aveva affondato il coltello nel cuore del problema: l’assetto urbanistico di Milano, la traccia di un disegno organico che non fosse la logica di un disordinato rattoppo, e quindi gli atti necessari per conseguirli. Atti vincolati da leggi e regolamenti che non sono stati rispettati. Perché altrimenti sarebbe stato necessario ipotizzare la sanatoria legislativa del “salva Milano”, poi finita come era giusto che finisse? Ma il sindaco, si sa, é un manager che ha poca dimestichezza con il sofismo dei legulei. È portatore di una “cultura del fare” che va indubbiamente apprezzata, ma non fino al punto di scadere nel baratro del “mercatismo”.
Quando questo accade, infatti, è facile giungere ad un punto di non ritorno. Ed il risultato diventa quello sintetizzato da Michele Serra, echeggiato nello stesso dibattito, in Comune: una “Milano luccicante”, trainata dal grande capitale finanziario, che “puntando al cielo ha perso la strada”. Dove la strada è appunto una visione più generale in cui il fenomeno della “verticalizzazione”, vale a dire dello skyline, come accade in tutte le metropoli occidentali, convive con assetti urbanistici armonici e complementari. E non come il caso dell’Hidden Garden, un gigantesco palazzo costruito in un cortile di piazza Aspromonte, al posto di una villetta di 3 piani. Altro che rigenerazione urbana: ma semplice ecomostro!
Di tutto ciò si è parlato poco nel consiglio comunale. Le forze di maggioranza hanno voluto porre l’accento sui risultati conseguiti. Sullo charme di una Milano che ha indossato gli abiti della città globale. Sui successi economici raggiunti in termini di Pil e di occupazione, anche se spesso solo lavoro povero. L’opposizione, invece, sui mali della città. La crisi del ceto medio. La sua progressiva sostituzione con l’upper class del mondo globalizzato. L’insicurezza derivante da una criminalità diffusa, il degrado della città normale rispetto all’eccellenze dei nuovi progetti architettonici. Difficile quindi trovare il terreno di un reale confronto.
In questo la relazione del sindaco non ha aiutato. Alla fine, tuttavia, è prevalsa l’idea della necessaria “discontinuità”. Cambiare passo. Voltare pagina. Ma anche in questo caso l’aporia logica è evidente. Se questo è necessario, allora c’era qualcosa che non andava nel “modello” precedente. Considerato anche il lungo intervallo di tempo trascorso (21 giugno 2016 data della prima elezione a sindaco di Sala). Ma, a giudicare almeno dall’andamento del dibattito, è un aggiornamento programmatico che non si tradurrà in una revisione, ma in una semplice sommatoria. Fare qualcosa in più per migliorare il welfare: dall’edilizia popolare, al verde, alla vendita dello stadio. E via dicendo.
Qualcosa destinato anche a segnare il passaggio da una precedente gestione un po’ tecnocratica, con quasi un uomo solo al comando, ad una in cui le forze politiche che sosterranno il sindaco vorranno avere più voce in capitolo. Un bene o un male? Difficile rispondere. Due però i problemi che già si intravedono: una maggiore complessità nella gestione – lo si è già visto per la vendita dello stadio – e la mancanza di una chiara strategia, dopo la caduta del “salva Milano” per dare soluzione ai problemi ancora aperti. A partire da quei cantieri che, al momento, sono stati fermati. Ma che in qualche modo dovranno riprendere, se non altro per tutelare chi ha investito i propri risparmi nell’acquisto di una casa. Sempre che non si voglia seguire l’esempio della vela di Calatrava a Tor Vergata. Quel cantiere romano rimasto chiuso per 15 anni e solo da qualche settimana riattivato.