Persino l’esercito esprime timori per l’operazione e per l’alto numero di vittime civili, che si aggiungono a quelli dei famigliari per la sorte degli ostaggi in mano a Hamas. Sono queste alcune delle prime conseguenze all’oltranzismo di Bibi Netanyahu, che vorrebbe l’occupazione totale della Striscia di Gaza, i palestinesi confinati in aree isolate, recinzioni e cordoni militari, un salto all’indietro di vent’anni. Del resto la popolazione di Israele non è mai stata compattamente a favore del bellicismo del suo leader e del suo governo, condizionato dagli estremisti.
Netanyahu, però, interpreta un pensiero che cova nel profondo dell’israeliano, la consapevolezza che in ogni coinquilino palestinese e coabitante arabo si nasconde la minaccia di dover scomparire dalla propria terra. La deportazione o il genocidio, per usare la parola che va tanto di moda, è in tal senso considerata la speculare attuazione, preventiva e cautelativa, di ciò che si potrebbe altrimenti subire come vittime. Una valutazione che non possiamo giudicare dalle nostre comode tastiere di commentatori, anche perché arriva dai residenti di un territorio che, per superficie e per popolazione, è leggermente inferiore alla Lombardia.
A rafforzare questo pregiudizio ostile è la quasi totale mancanza, per lo meno a quanto appaia ai nostri occhi, di una seria opposizione dei palestinesi contro la leadership di Hamas. Nonché, elemento non irrilevante, la quasi totale assenza di appoggio che Hamas incontra a livello internazionale, in particolare tra i paesi arabi ai quali Netanyahu non esclude di affidare un ruolo nel suo piano.
Davvero complicato giudicare, prender parte per una o l’altra posizione. Anche perché il freddo ragionamento, quando si parla di Israele e Palestina, non viene tenuto sempre a portata di mano. Quando pensiamo o parliamo di Gaza, il nostro cervello funziona diversamente e mescola due azioni: una più istintiva, che ricevendo uno stimolo prova un’emozione; l’altra che prova a ragionare, ascoltare e usare le parole.
Quando vediamo la fotografia di un bambino smagrito non possiamo non venire colpiti e provare a difenderlo in qualunque modo. Ed è di questo meccanismo elementare che si alimenta la stragrande maggioranza dei pareri filo palestinesi, Pro Pal, antisionisti e ostili alla politica guerrafondaia del governo israeliano, di chi prende simbolicamente la residenza a Gaza. Tant’è che persino coloro che si oppongono a queste posizioni – in genere perché assunte da persone di ideologia progressista, woke, di sinistra – preferiscono contestare l’autenticità delle immagini, attribuendole alla propaganda palestinese. Così come accade con il computo delle vittime della guerra o con la narrativa delle persone uccise mentre cercano di procurarsi il cibo, dove le due parti in conflitto si rimpallano reciprocamente la responsabilità.
Il sionista o filo-israeliano non contesta, cioè, il meccanismo emotivo e istintivo del nostro cervello, ma la fonte iconica o notiziale che l’ha scatenato. Neppure lui si sforza di usare la parte più lentamente ragionevole del cervello, poiché quando si toccano certi tasti emotivi e primordiali non è facile farlo. Difficile dire: “Se davvero il bambino non mangia e non si cura per colpa degli attacchi di Tel Aviv, se anche sono morte decine di migliaia di persone per la reazione israeliana dopo il 7 ottobre, proviamo ugualmente a ragionare”. Molto difficile. Ma vale la pena provarci.