È difficile trovare nella XIX legislatura un voto unanime del Parlamento. Forse gli archivisti sono in grado di scovare qualche risoluzione o ordine del giorno che, dopo lunghe mediazioni, non abbiano visto una netta contrapposizione tra maggioranza ed opposizione.
C’è voluto lo shock provocato dall’omicidio di Giulia Cecchettin, tanto assurdo e crudele, per indurre il Parlamento ad approvare celermente e all’unanimità la legge n. 168 del 24 novembre 2023, Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica con modifiche alla legge del 2019 conosciuta come “codice rosso”. Normalmente le forze della sinistra (diversamente dai centristi che fino a quando non sono svaniti nella nebbia hanno appoggiato qualche iniziativa del governo) conducono una opposizione a tutto campo agitando argomenti rozzi rivolti alla pancia dell’elettorato. Emblematico è il caso del referendum abrogativo della legge Calderoli, che viene bollata come misura per la parte ricca del paese a scapito di quella povera ed accusata di spaccare l’Italia abbandonando il Mezzogiorno a se stesso, dimenticando che il principio dell’autonomia differenziata fu introdotta nelle riforma del Titolo V della Carta del 1948 varata da un governo e da una maggioranza di centro-sinistra e che fu l’ultimo presidente del Consiglio del Pd (Paolo Gentiloni alla fine della XVII Legislatura) a sottoscrivere gli accordi di autonomia differenziata con i governatori delle regioni interessate tra cui Stefano Bonaccini ora presidente del Pd.
In realtà – al di là del giudizio sulla legge – è una polemica grossolana quella di rappresentare il Sud sempre in fila davanti alla Caritas a cercare l’indispensabile assistenza. Ma la sinistra accusa il governo di fare la guerra ai poveri per l’abolizione del reddito di cittadinanza e l’introduzione di altre misure di tutela. Si prevedevano moti popolari che non si sono visti, anzi nel Sud l’occupazione è aumentata più che nel resto dell’Italia. La sinistra non intende contribuire a risolvere i problemi, ma si limita a cercare il modo di mettere in difficoltà il governo. Così è stato l’anno scorso con la telenovela del salario minimo e quest’anno con lo ius scholae: nel primo caso era evidente che la maggioranza non avrebbe mai votato un ddl presentato dalle opposizioni; così anche l’emendamento sullo ius scholae serviva soltanto a mettere in difficoltà FI, il cui leader aveva lanciato durante l’estate il cuore oltre l’ostacolo ma non era andato a riprenderlo per non creare problemi al governo.
La sinistra inoltre è impegnata a cancellare l’azione portata dai suoi governi (sostenendo i referendum di Landini) negli ultimi dieci anni durante i quali il Pd rimprovera a se stesso di aver governato senza aver vinto le elezioni. E non riesce a rendersi conto che questo è di fatto un riconoscimento dell’utilità di quel premierato a cui attribuisce manie e pericoli autoritari (chi scrive non condivide questa riforma ma l’argomento della sinistra è banale demagogia). E si iscrive nella polemica strisciante sull’antifascismo. La sinistra non vede l’ora che arrivi il 25 aprile perché in quel giorno è in condizione di far pesare le origini e le ascendenze famigliari come un figlio legittimo nei confronti di uno nato fuori dal matrimonio, ciò in barba al diritto di famiglia, che dispone parità dei diritti. In quel giorno “tutti gli amici degli amici” della gauche nei giornali e nelle tv (altro che familismo!) si esercitano a pesare ogni parola pronunciata da Giorgia Meloni per distillarne la presa di distanza con il ventennio. Mentre l’ANPI ha sempre l’ultima parola.
Siamo ormai a poche ore dall’apertura della sessione di bilancio durante la quale in Parlamento voleranno gli stracci e la maggioranza sarà accusata di ogni nefandezza, a partire dal disfacimento della sanità pubblica a favore di quella privata. E di non tutelare il lavoro. Prima di affrontare questi problemi, maggioranza e minoranze hanno trovato il modo di divedersi anche su di una squallida vicenda di corna e di litigare con reciproche e un po’ infami accuse, da destra, di inefficienza e da sinistra di sciacallaggio al cospetto della nuova alluvione in Emilia-Romagna. In quelle stesse ore nel Parlamento di Strasburgo – salvo poche lodevoli eccezioni – tutti i rappresentanti dell’arco dei partiti votavano contro al punto 8 del documento sull’Ucraina.
Che cosa stava scritto di tanto negativo da suscitare il voto contrario in dissonanza – per il Pd, FI e Verdi – con i loro gruppi e partiti a livello europeo? Leggiamolo insieme: (Il Parlamento) «invita gli Stati membri a revocare immediatamente le restrizioni sull’uso delle armi occidentali contro obiettivi militari legittimi sul territorio russo». Era il solo punto che contava. Si dirà che poi il documento è stato votato per intero dai fedifraghi. Ma il segnale era già stato inviato in modo chiaro e univoco. Il segnale della doppiezza di una premier che in tutte le occasioni insegue Zelensky per abbracciarlo e di un’opposizione a cui fa comodo l’ambiguità della maggioranza e che – quando non sta distrattamente con Putin in compagnia di Salvini – non riesce a liberarsi da quel pacifismo che nella storia recente veniva ispirato direttamente dal Cremlino a prescindere dall’inquilino pro tempore e nel suo esclusivo interesse.