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La lezione di Ottaviano Del Turco

Politica e giustizia lette con la morte di Ottaviano Del Turco, l'ultimo segretario del Psi. Il ricordo di Damato

Con Ottaviano Del Turco, morto a quasi 80 anni, che avrebbe compiuto il 7 novembre, è scomparso l’ultimo testimone diretto della capitolazione imposta una trentina d’anni fa al Partito Socialista. Di cui egli fu eletto segretario nel 1993 succedendo a Giorgio Benvenuto, che Bettino Craxi aveva preferito quattro mesi prima come suo successore quando risultò coinvolto a tutti gli effetti, e non solo a voce, nell’uragano giudiziario di Tangentopoli.

Craxi era ancora estraneo all’inchiesta già nota come “Mani pulite” nel mese di giugno del 1992, quando la Dc lo aveva designato per il ritorno a Palazzo Chigi dopo il quadriennio 1983-87. Ma l’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, peraltro già suo ministro dell’Interno, gli negò l’incarico a seguito di una consultazione a dir poco irrituale col capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli.

In quella procura, diventato segretario del Psi, Del Turco si presentò spontaneamente per offrire la collaborazione alle indagini sul finanziamento diffuso e abituale dei partiti e, più in generale, della politica. Ma il gesto non servì a nulla. Il trattamento giudiziario, oltre che politico, del Psi continuò in quella che dopo una ventina d’anni il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano definì di “una severità senza uguali” scrivendone in una lettera pubblica all’ormai vedova di Bettino Craxi, morto ad Hammamet col marchio del “latitante” inutilmente contestato in ogni sede, anche giudiziaria, dal suo avvocato Nicolò Amato.

Lo stesso Del Turco raccontò, dopo quella visita alla Procura di Milano che sotto la sua segreteria, quasi per scoraggiarlo a insistere nell’intenzione di mantenere vivo il partito, si sprecavano quasi quotidianamente le iniziative dissuasive, fra perquisizioni, sequestri ed altro. Non sarebbe bastato neppure cambiargli il nome, e più volte. Il partito doveva morire a tutti gli effetti. Bisognava fargli “passare la voglia o fargli tornare il gusto” – come qualcuno attribuì, a torto o a ragione, a Massimo D’Alema in una confidenza ad amici – di chiedere e raccogliere voti.

Per quanto colpito da un’esperienza così dura, ma incline forse alla fiducia che gli ispirava anche il suo hobby di pittore, l’ex segretario del Psi, e prima ancora esponente fra i più alti della Cgil, volle partecipare alla fondazione del Partito Democratico. Dove, dopo essere stato parlamentare e ministro delle Finanze, particolarmente nel secondo governo di Giuliano Amato, egli approdò come presidente della sua regione abruzzese. Ma fu poi arrestato con pesanti accuse di corruzione e associazione a delinquere nei rapporti con la sanità privata.

Alla fine di una lunga vicenda giudiziaria ch’egli fece in tempo ad avvertire, prima di entrare nel tunnel di una malattia dell’oblio forse anche peggiore della morte, il mio amico Ottaviano risultò condannato solo per induzione indebita, assolto da tutto il resto. Ma già all’esplosione del caso, con l’arresto, il Pd lo aveva scaricato. E di brutto.

Addio, carissimo Ottaviano. La cui vicenda ho voluto tuttavia ricordare, pur in estrema sintesi, anche per rilevare come il tempo in Italia – a proposito di diritti di cui tanto si parla in questi giorni, forse più per brandirli come armi di lotta e manovra politica che per difenderli davvero – il tempo si sia fermato a una trentina d’anni fa.

A un ministro della Giustizia come Carlo Nordio, la cui esperienza di magistrato d’accusa sembra una circostanza aggravante, che si è messo in testa di cambiare registro può capitare di trovarsi dileggiato come un ubriacone, da liquidare – ho letto sulla solita stampa manettara – con un “barile” di vino o liquore. Che tristezza. Anzi, che schifo.

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