skip to Main Content

Censis

Noterelle sul concetto di leadership

Il Bloc Notes di Michele Magno

Berlusconi e Renzi leader lo sono stati, Di Maio forse non lo è mai diventato, Salvini lo è, Zingaretti non ancora: vero, ma cos’è allora la leadership? Il termine deriva dal verbo inglese “to lead”, che è stato comunemente usato per tradurre il latino ducere. Leader ha ovviamente la stessa radice: è “one who leads” in tutte le accezioni del verbo inglese, il più generale dei quali è “cause to go along with oneself”, cioè “farsi seguire”; mentre uno dei più specifici è “to govern”, governare.

Nelle scienze sociali le definizioni compiute di leadership si sono moltiplicate nel corso del tempo, ma -come hanno osservato i più attenti studiosi dell’argomento- essa è eminentemente caratterizzata dall’invenzione creativa che sorregge sia la volontà di determinare le scelte collettive, sia l’azione esercitata a questo fine. Ovviamente, l’autorità e il potere del leader non possono basarsi su un credito di fiducia illimitato, ma devono produrre benefici e risultati positivi per i seguaci; né può essere esente da verifiche periodiche, come le elezioni o le “primarie” di partito.

Storicamente, è stato forse Platone il primo ad affermare il principio della leadership. Nelle “Leggi”, il filosofo greco afferma che vi è chi -essendo nato e educato per questa funzione- deve “comandare, guidare e governare” gli altri perseguendo il bene della polis. Nella cultura ellenica e latina l’interesse per i grandi leader politici e militari è costante. Ma solo nel 69 d.C. la “Lex de imperio Vespasiani” legittima il potere personale assoluto dell’imperatore romano, da cui trae origine la categoria politica del cesarismo.

Se cavalieri e re rappresentano i leader più rilevanti del Medioevo, la “Great Rebellion” inglese del Seicento apre la via al primo episodio cesaristico moderno, la dittatura personale di Oliviero Cromwell. Con la “Glorius Revolution” di fine secolo comincia invece l’era della monarchia costituzionale, che culminerà nella creazione del Gabinetto di governo e dell’istituto del premier. Per altro verso, dalla Rivoluzione americana e dalla Convenzione che ne sancisce la vittoria (1787) nasce la repubblica presidenziale. Le due democrazie anglosassoni si sono così assicurate una leadership personale forte attraverso la sua progressiva istituzionalizzazione.

I principali Stati europei svilupperanno il modello della democrazia parlamentare, ma la Francia ha vissuto con i due Bonaparte esperienze illiberali, che hanno ispirato una nuova categoria della politica: il bonapartismo, coincidente con il cesarismo per l’essenziale, ossia il potere personale appoggiato dall’esercito e dal popolo tramite l’istituto del plebiscito. Da ultimo, in pieno ventesimo secolo Italia, Germania e Russia sono state soggette a regimi totalitari. Nella “Führerprinzip” teorizzata da Hitler in “Mein Kampf” (1925-1927), il leader espresso dalla lotta rivoluzionaria, e perciò “selezionato dalla Natura”, nomina i capi di tutte le istanze dello Stato e del partito unico, costruendo dal vertice la piramide del potere.

La riflessione scientifica sulla leadership matura tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso, con i contributi di Gaetano Mosca sulla classe politica e di Vilfredo Pareto sulle élites, di Roberto Michels sui partiti e sui sindacati operai e poi sul fascismo. Ma è stato soprattutto Max Weber a lasciare l’impronta più profonda con l’elaborazione del concetto di carisma. La psicologia ha a sua volta offerto contributi importanti, con lo studio del rapporto tra leader e folla da parte di Gustave Le Bon e di Sigmund Freud. Mentre il confronto tra totalitarismo e democrazia ha ispirato, negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, le ricerche di Theodor W. Adorno e Mark Horkeimer sulla celebre e controversa “personalità autoritaria”.

Dopo il conflitto mondiale, il metodo della psicobiografia è stato applicato da A.L e J.L. George al presidente Wilson (1956), da E. Erikson a Lutero (1958) e a Gandhi (1969). Le scuole germogliate dai semi del pensiero freudiano, come la “psicologia del narcisismo”, hanno dato luogo sia a riflessioni teoriche di ampio raggio sia a studi penetranti su singoli leader. Questi approcci “sono stati affiancati da molti altri più propriamente politologici e sociologici [sui movimenti populisti] quasi tutti debitori -in varia misura- dell’elaborazione weberiana” (Luciano Cavalli, “Leadership”, Treccani, 1996).

Nel secolare dibattito sulla leadership non sono mancate impostazioni poco precise e partigiane, in particolare del rapporto tra leader e società. Secondo gli studiosi più avvertiti si tratta di un rapporto di interazione, che va esaminato nel suo concreto equilibrio in ciascun caso storico. Cogliendo questo aspetto del problema, Machiavelli scrive nel “Principe” che per conoscere la “virtù” di Mosè, la “grandezza d’animo” di Ciro e la “eccellenzia” di Teseo erano necessarie le condizioni -rispettivamente- di schiavitù, oppressione e dispersione dei loro popoli; e che quelle tre condizioni si trovavano unitamente presenti nella nostra penisola, ma esasperate, forse proprio per mettere alla prova “la virtù di uno spirito italico”. Quale che sia il giudizio sulle qualità della leadership, l’evidenza empirica ci dice che essa ha giocato un ruolo cruciale soprattutto nelle situazioni straordinarie, ossia di fondazione o trasformazione di uno Stato.

Si è appena detto di Machiavelli, scienziato assai pragmatico della politica. Ma nella filosofia della storia di Hegel l’individuo “cosmico-storico” è pur sempre il protagonista delle grandi crisi di transizione, colui che squarcia l’involucro soffocante del vecchio ordine per farne nascere uno nuovo. Solo che per il grande fiorentino il leader solca un mare dalle rotte sempre ignote, mentre per il filosofo tedesco (e per Marx) il porto in cui approderà è comunque prestabilito.

La personalizzazione del potere si sdoppia, da tempo immemorabile, in due modalità ben distinte, che “trovano nella classica tipologia weberiana una sistemazione ancora oggi validissima” (Mauro Calise, “Fuorigioco. La sinistra contro i suoi leader”, Laterza, 2013). Da un lato, c’è quello che Weber definiva il potere tradizionale, basato sul denaro e sulla forza degli interessi particolari. Nel caso della personalizzazione della politica, lo scambio è di voti con favori. Al potere del denaro e degli interessi particolari si può affiancare il potere della personalità. Weber ne individua i tratti originali nella definizione di carisma, cogliendo una costante delle organizzazioni complesse, dall’antichità fino all’età contemporanea.

La forza del carisma sta nell’ascendenza divina che -si tratti di re o profeti- viene solitamente associata al capo, e nella natura messianica del suo messaggio. Il carisma nasce da uno stato di grazia unito, quasi sempre, a una disponibilità al sacrificio come occasione palingenetica. Il capo carismatico promette per sua natura un nuovo inizio, e in questa promessa sta la sua capacità di trascinare le folle. Quando Weber scriveva le sue tesi, non c’era ancora la radio come canale di intrattenimento. Il cinema faceva i suoi primi passi, muti. E la televisione non era neppure immaginabile. Tuttavia, non aveva sottovalutato le potenzialità del potere carismatico. Con ciò presagendo genialmente l’irruzione, dopo pochi anni in tutta Europa, di leader visionari e magnetici.

Per quanto essi facessero largo uso della propaganda di stampa e, da un certo momento in avanti, della radio, il loro appeal sulle folle era mediato soprattutto dagli assembramenti fisici, dalle “adunate oceaniche”. Che cosa sarebbe successo -come domanderà una fortunata pubblicità televisiva a proposito di Gandhi- se i leader carismatici avessero avuto a disposizione i moderni mezzi di comunicazione? Forse meno di quanto si possa immaginare. Perché, come i nuovi videoleader avrebbero imparato a proprie spese, i media hanno la capacità di rendere celebre in tempi rapidissimi un nuovo personaggio e il suo messaggio; ma, in tempi altrettanto rapidissimi, possono logorarlo e distruggerlo.

È ciò che rende i “capi attuali così potenti e, insieme, così fragili” [Calise]. Beninteso, senza nulla togliere al fatto che la televisione e i social network hanno trasformato le mille piazze reali di un Paese in un’unica piazza virtuale, con una capacità di fuoco comunicativa praticamente illimitata. Innovazione che ha cambiato anche la natura del messaggio -e del linguaggio- con cui i nuovi leader si rivolgono alla propria audience.

In Italia, dalla metà degli anni Ottanta, i leader politici sono tracimati prima nei talk-show e poi nelle trasmissioni di intrattenimento, per ballare, cantare, cucinare, nel tentativo di apparire più vicini (o più simpatici) ai loro potenziali elettori. Questa mutazione genetica riflette tendenze più ampie, che concorrono a segnare quella che è stata chiamata “era del narcisismo”. Si spettacolarizza la società (come aveva previsto Guy Debord nel 1967) e si spettacolarizza la politica (come aveva previsto Neil Postman nel 1986).

In un saggio del 1974, “Il declino dell’uomo pubblico” (Bruno Mondadori, 2006), Richard Sennet poneva all’origine della progressiva erosione della vita pubblica una vera e propria apocalisse culturale, segnata dall’emergere di un Io ipertrofico e insieme vuoto, che tende a proiettare sullo spazio pubblico la propria soggettività narcisistica: sentimenti, emozioni, pulsioni, desideri di successo e di visibilità. Lo stesso spazio pubblico viene così invaso da linguaggi e stili narrativi di una soap opera, in un continuo, banale e seriale disvelamento di sé ormai scevro da ogni mistero o pudore.

È quanto un altro acuto indagatore della “cultura del narcisismo”, Christopher Lasch, ha sintetizzato nel saggio “La cultura del narcisismo” (Bompiani, 2001) con l’espressione “ribellione delle élite”, attribuendo alle minoranze dominanti gli stessi vizi e le stesse debolezze che nel 1930 un altro interprete della crisi della modernità, Ortega y Gasset, aveva attribuito a quelli che dovrebbero costituire i loro rappresentati (“La ribellione delle masse”, SE Editore, 2001).

In un quadro istituzionale tendenzialmente delegittimato, in cui si sgretolano le basi materiali della fiducia sociale, non deve quindi sorprendere che nel nostro Paese sia riemersa una “tentazione populista” anche nelle forme -fin qui del tutto inedite- della “democrazia digitale” (Pierre Rosanvallon, “Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia”, Castelvecchi, 2012).

Back To Top