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Non solo Hong Kong. Le scintille tra Cina e Australia ci riguardano eccome. L’analisi di Lo Prete

Le tensioni su Hong Kong analizzate da Marco Valerio Lo Prete con Start Magazine

La stampa italiana da qualche giorno si sta occupando della proposta legislativa cinese che mette a repentaglio l’autonomia di Hong Kong. Una mossa senza precedenti, criticata dagli Stati Uniti, oltre che dagli stessi attivisti pro democrazia della città-stato che nel 1997 il Regno Unito restituì alla Cina a patto che in futuro fosse rispettato il principio “un unico Paese, due sistemi”. Per Marco Valerio Lo Prete, giornalista del Tg1, può essere utile leggere tali tensioni in parallelo a quelle tra Cina e Australia che finora hanno ricevuto minore fortuna mediatica in Italia. Ne ha scritto di recente su Public Policy e Start gli ha posto qualche domanda sul tema.

Perché sta salendo la tensione diplomatica tra Australia e Cina?

La scintilla da cui sembra essere iniziato tutto, a metà dello scorso aprile, è stata la scelta del governo australiano, guidato dal Liberale Scott Morrison, di chiedere un’inchiesta indipendente e in tempi brevi sulle origini della pandemia da Coronavirus. Per l’esecutivo di Canberra – che, per inciso, non ha mai detto di credere all’ipotesi che il virus provenga da un laboratorio cinese – solo grazie a un’inchiesta si può onorare davvero la cooperazione internazionale, e l’annesso principio di responsabilità verso gli altri Paesi, e solo così si potrà fare tesoro di quanto accaduto per evitare in futuro nuovi casi simili. Dopo settimane di trattative diplomatiche, l’Assemblea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha approvato una risoluzione su un’inchiesta internazionale, seppure caratterizzata da toni meno esigenti rispetto al progetto australiano. La Cina, comunque, ha letto nella proposta australiana originaria la volontà di attaccare Pechino, in tandem con gli Stati Uniti.

Quali forme sta assumendo lo scontro tra Pechino e Canberra?

Si è aperto innanzitutto un fronte diplomatico. Le autorità cinesi hanno usato parole inusitatamente dure nei confronti di Canberra. L’ambasciata della Repubblica Popolare in Australia ha accusato i politici locali di essere “pappagalli” degli Americani, poi ha ipotizzato futuri boicottaggi di beni e servizi australiani da parte dei cittadini cinesi, infine ha definito “nient’altro che una barzelletta” l’idea che l’Australia si possa prendere un qualche merito per la decisione dell’OMS di condurre un’indagine sulle origini del Coronavirus.

Se questi sono i toni “diplomatici”, figuriamoci il resto…

Il “resto” è quello che rischia di fare più male all’Australia. Proprio negli stessi giorni di queste dichiarazioni senza precedenti, la Cina ha assunto decisioni che penalizzano l’economia australiana. Prima di tutto ha sospeso la licenza per esportare a quattro grandi mattatoi australiani. Poi ha imposto un dazio dell’80%, per cinque anni, sull’orzo australiano. Infine ha annunciato una revisione del regime di controlli sull’importazione di minerali ferrosi che potrebbe penalizzare l’Australia, o almeno così fa sapere il Global Times, giornale del Partito Comunista Cinese. Osservo che l’export di minerale di ferro verso la Cina, lo scorso anno, ha portato quasi 50 miliardi di euro nelle casse delle aziende australiane. Formalmente non c’è nessun legame tra gli attriti diplomatici sul Coronavirus e queste decisioni, ma molti analisti – tra cui ce ne sono anche di vicini a Pechino – le descrivono apertamente come ritorsioni per l’atteggiamento del governo australiano.

Che rischi corre l’Australia in questo confronto con la Cina?

I rischi di breve termine sono ovviamente per alcuni settori dell’economia nazionale. Attualmente la Cina acquista il 32,6% di tutte le esportazioni australiane – soprattutto materie prime come minerali ferrosi, carbone e prodotti alimentari. Dalla Cina, inoltre, proviene il 28% degli studenti stranieri che frequentano le Università australiane, con l’educazione terziaria che è il terzo settore più importante nell’economia nazionale. Nel medio termine, le mosse di Pechino puntano a incrinare il consenso, finora bipartisan, per le misure anti-ingerenze straniere e a tutela dello Stato di diritto in Australia. Se i ceti produttivi del Paese fossero duramente colpiti nel portafoglio, inizierebbero a esercitare pressioni per far cambiare direzione alla politica estera, trovando magari sponde nel panorama politico, e indebolendo l’azione del governo sul piano internazionale.

Perché quanto sta accadendo in Australia è così rilevante anche per i Paesi europei e per l’Italia? E in cosa differisce dallo scontro in corso tra Cina e Hong Kong?

La tensione tra Australia e Cina è ormai strutturale, dura da anni e va al di là di questo singolo episodio riguardante il Coronavirus. Da una parte infatti c’è la Cina, con un miliardo e 400 milioni di abitanti governati ininterrottamente per 71 anni dal Partito Comunista locale, col suo rampante capitalismo di Stato e una crescente assertività sul piano internazionale. Dall’altra parte l’Australia: 25 milioni di abitanti, una società multiculturale innestata su una democrazia tendenzialmente bipartitica di matrice anglosassone, un’economia di mercato tra le più solide del pianeta, e soprattutto un’alleanza strategica in essere con gli Stati Uniti. Sono le prove generali del tipo di rapporto – tutt’altro che semplice – che potrebbe instaurarsi tra una Cina rampante e le nostre democrazie liberali. Come ho scritto due anni fa, l’Australia è un po’ il canarino occidentale nella miniera dell’autoritarismo che fa proseliti nel mondo. Per questa ragione sarebbe utile approfondire le misure messe in campo dall’Australia per fronteggiare ogni tipo di pressione esterna – cinese o meno – sulle proprie istituzioni democratiche.

Su queste misure torneremo in una prossima puntata di questa conversazione…

Con piacere!

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