Tanto tuonò che piovve. E malgrado i nuvoloni neri che oscuravano l’orizzonte economico, politico ed elettorale (realmente e nelle metafore più meteorologiche), il capo dello stato argentino e massimo devoto di Donald Trump, s’è fatto cogliere senza ombrello. La sua difesa a oltranza (overweening, sembra che usi dire e abbia detto il suo modello statunitense dalla Casa Bianca) della sorella Karina, segretaria generale della Casa Rosada e personalmente coinvolta nel recentissimo scandalo per corruzione che ha scoperchiato nel governo un affaire di cospicue bustarelle e registrazioni clandestine, l’ha lasciato all’intemperie del suo caustico “giudicheranno gli elettori”. I quali hanno sancito la vittoria oltre ogni pronostico dell’opposizione peronista, con uno scarto superiore al milione di voti, sui 14 convocati alle urne (Fuerza Patria, 47,49%; LLA, 36,87%; Altri, 4,24%. Hanno votato il 60.14% degli aventi diritto, non moltissimi e anche questo è un dato interessante).
E’ una consultazione “minore”, nondimeno altamente significativa, tant’è che monopolizza le prime pagine di tutti i giornali, radio, canali televisivi e dilaga nei commenti degli utenti, impossibili da riassumere (e in molti casi -come c’era da attendersi- è preferibile non tentarlo neppure). Ribaltone, è la parola più gentile e frequente. Rinnova qualche decina di deputati e senatori del parlamento locale di Buenos Aires, la provincia più popolosa, estesa e sviluppata dell’intero paese. Tradizionalmente a prevalenza peronista. E precede soltanto d’un mese circa l’analogo rinnovo di un terzo del Congresso nazionale. In cui il governo non ha mai disposto d’una maggioranza stabile, che ha perciò inventato di volta in volta grazie a opportunismi e contraddittorie promesse. Dunque si tratta d’una verifica decisiva per la politica della motosega decisa e applicata da Milei (chi vive, vive; chi muore, muore…) con una brutalità pari alla rozzezza del disegno economico e costituzionale complessivo, sempre marcato da forte autoritarismo.
La prossima consultazione nazionale dovrà chiarire anche la portata del duplice sommovimento determinato dal voto di ieri. Che ridisegna il profilo politico e sociale tanto del governo quanto dell’opposizione. Infatti i risultati, ancor che limitati al cuore del paese (poi, certo, ci sono le viscere…), mostrano che nel peronismo Cristina rinchiusa da mesi ai domiciliari (anche per lei la colpa è corruzione, sebbene sempre negata) continua ad essere la bandiera sempre al vento del fervore popolare; però a indirizzarne la volontà politica è ormai il governatore della provincia e dichiarato rivale interno Axel Kicilov, giovane, irriverente e giudiziariamente libero. Mentre a destra appare tutt’altro che risolto l’asperrimo confronto tra l’ex presidente Mauricio Macri e il successore Javier Milei, che riteneva (e ha perfino proclamato) di aver spodestato il predecessore, al quale è riuscito a sottrarre spezzoni non trascurabili del suo partito. Ma non abbastanza per rompere i vincoli d’un radicato sistema di potere.
Sebbene non sia ancora possibile un’analisi approfondita e affidabile del voto, la maggior parte dei commenti tendono a leggervi il ridisegno della geografia sociale dell’Argentina, compiuto in nove mesi dalla feroce motosega di Milei. Dunque degli interessi favoriti e di quelli danneggiati, né gli uni né gli altri tutti e solo dalla stessa parte. A giudicare dai collegi elettorali della provincia, il governo risulta travolto nelle zone storicamente industriali, ormai vittime della decadenza che in mancanza di investimenti modernizzatori asfissiano l’attività manifatturiera, deprimendo l’occupazione già strizzata dai salari svalutati con la moneta e dal caro-prezzi. Ma gli è andata soltanto meno peggio in quelli dominati invece dal grande latifondo, disorientato dall’ondivaga politica fiscale del governo e risentito per il ritorno delle anticipazioni sull’export, a cui Milei e il suo ministro economico Luis Caputo hanno dovuto fare ricorso per contenere il deficit di bilancio come richiesto dal Fondo Monetario per concedere il maxi-prestito non meno indispensabile e urgente.
Milei ha così perduto in ben sei delle otto grandi circoscrizioni. Il suo governo è in crisi e c’è attesa per i cambiamenti di cui si vociferava anche prima del voto. Il dollaro accentua la sua risalita su tutti i mercati e si ravviva l’inflazione. Controversa all’interno stesso dell’area governativa, una correzione del piano economico complessivo appare ora ineludibile, al tempo stesso difficile più che mai nelle avverse condizioni determinate dall’esito elettorale. I peronisti, è ovvio presumere, vi vedono in cambio la possibilità di portare ancora più a fondo la battaglia parlamentare scatenata negli ultimi mesi per un riequilibrio di pensioni, salari e sussidi ai settori maggiormente necessitati della popolazione. Salvo alcuni gruppi multinazionali, anche tra le imprese industriali si colgono più malumori che soddisfazioni. C’è da credere che nella discrezione in cui pur si mantiene, lo stesso ex presidente Macri, certamente il più inquieto degli alleati competitivi di Milei, non si neghi qualche istante di profondo compiacimento.