Al compianto Aldo Moro – di cui oggi ricorre il 45esimo anniversario di quella orribile morte comminatagli dalle brigate rosse dopo 55 giorni di penosa prigionia in un covo cinicamente promosso a “carcere del popolo” dagli assassini – è capitato in questi giorni di essere indicato da qualche parte come una vittima postuma della riforma costituzionale avviata dal governo Meloni consultando proprio in questo 9 maggio 2023 le opposizioni. “Riforme al buio”, titola oggi Repubblica.
Della Costituzione in vigore dal 1948 il professore incaricato di diritto penale e filosofia del diritto Aldo Moro fu sicuramente tra gli artefici, eletto nel 1946 all’Assemblea Costituente nelle liste democristiane della sua Puglia. E, diventato segretario della Dc nel 1959 subentrando ad Amintore Fanfani, inorridì di sicuro alla sola idea prospettatagli dal collega universitario Gianfranco Miglio di modificarla, dopo appena undici anni di vita, in senso federalista e presidenziale.
Miglio era in un elenco di consulenti, amici e non so cos’altro che Fanfani usava sentire e Moro ebbe la curiosità e la cortesia di voler ascoltare prima di decidere se continuare ad avvalersi pure lui delle loro opinioni o no. Per Miglio decise negativamente dopo l’incontro incaricando Franco Salvi di depennarlo dalla lista. Ma era – ripeto – il 1959. Al governo il segretario democristiano aveva avuto la possibilità di fare solo il sottosegretario, poi il ministro della Pubblica Istruzione, poi ancora il ministro della Giustizia. Nel 1963 sarebbe passato da segretario della Dc a presidente del Consiglio per rimanere ininterrottamente a Palazzo Chigi sino al 1968 e tornarvi brevemente fra la fine del 1974 e il 1976, passando prima per il Ministero degli Esteri. Lo aspettava da presidente della Dc, ma soprattutto regolo dello scudo crociato ormai riconosciuto da tutti, il Quirinale alla fine del mandato presidenziale di Giovanni Leone, nel 1978, se i terroristi rossi non ne avessero tragicamente stroncato la carriera.
Sostenere, dopo una così lunga pratica di governo e di politica, che Moro fosse rimasto fermo a quell’incontro del 1959 con Miglio e arruolarlo ora, d’ufficio e da morto, nelle truppe contro la riforma in cantiere ha quanto meno dell’azzardo per me. Che – per ciò che conta, per carità, la mia modestissima frequentazione con lo statista che difesi da tutti gli sgambetti e agguati ricevuti nel partito – ritengo avesse avuto l’occasione di toccare con mano certi limiti della Costituzione. Nel 1976, per esempio, egli indicò i curiosi “due vincitori” usciti dalle urne, non alleati davanti al corpo elettorale ma contrapposti, come la sua Dc e il Pci di Enrico Berlinguer. E ne teorizzò una “tregua” che gli costò la vita anche per la debolezza che una certa pratica costituzionale aveva procurato al sistema.
Consiglierei sommessamente di risparmiare al povero Moro, messo a guardia dell’intoccabilità della Costituzione del 1948, quest’altro abuso della sua vita e della sua morte.