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Montesquieu

Montesquieu e l’invenzione delle cambiali

Il Bloc Notes di Michele Magno

Il mercante di Venezia (1596-1598) è una delle opere teatrali più discusse e controverse di William Shakespeare. Lo stereotipo dell’ebreo avido, collerico e vendicativo ha esposto il dramma shakesperiano all’accusa di antisemitismo. Un secolo e mezzo più tardi, Montesquieu la rovescia. Nel suo Spirito delle leggi (1748), gli ebrei fungono da apripista della trasformazione del commercio da attività disprezzata, associata all’usura e al prestito su pegno, a professione degna e stimata. Intorno al periodo dei primi viaggi transoceanici -scrive- il commercio cessò di essere “soltanto la professione della gente bassa” e perciò campo esclusivo di “una nazione allora coperta d’infamia” (e qui intende gli ebrei), e “rientrò, per così dire nel seno della probità” (libro XXI, cap. 20). In questo contesto, i discendenti di Abramo si collocano alla testa di un’autentica rivoluzione politica e culturale, per cui, per la prima volta, il commercio “potè eludere la violenza”. Come fecero a innescare questo cambiamento colossale e ad avviare l’Europa verso una società mercantile moderna, sicura e laica? A questa complessa domanda Montesquieu dà una risposta solo in apparenza semplice: “inventarono le lettere di cambio”.

La maggior parte degli studi sul pensatore francese glissa sul significato di questa affermazione,  sostiene Francesca Trivellato in un volume di somma erudizione: Ebrei e capitalismo. Storia di una leggenda dimenticata (Laterza, 2021). Secondo la docente di Princeton, le lettere di cambio, o cambiali, rappresentavano nell’Europa preindustriale ciò che nella società capitalistica odierna costituiscono i titoli finanziari più sofisticati. Nate alla fine del Duecento per facilitare il commercio a lunga distanza, consentivano di trasferire fondi all’estero eliminando i rischi legati al trasporto di oro e argento. Col tempo diventarono non solo mezzi di pagamento, ma anche strumenti di speculazione. Truffe, sotterfugi, opacità: questi timori per gli usi impropri delle cambiali spinsero i teologi a elaborare rigidi schemi per separare quelle lecite da quelle illecite, perché infrangevano i divieti contro l’usura. Di fronte a una tale incertezza, ricorrere al repertorio cristiano del presunto oligopolio ebraico del credito era quasi un riflesso condizionato.

Fu così che a metà Seicento, quando la circolazione delle lettere di cambio raggiunse il suo apice, cominciò a farsi strada l’idea che fossero state inventate -insieme alle polizze assicurative- dagli ebrei espulsi dalla Francia durante il Medioevo, ansiosi di mettere in salvo le loro ricchezze. Una leggenda, appunto, per un verso favorita dall’invisibilità delle cambiali, che spostavano somme di denaro astraendo il valore monetario da quello materiale; e, per l’altro, dall’invisibilità degli ebrei, percepiti come una presenza capillare e influente ma anche nascosta e indecifrabile. Una leggenda, inoltre, che deve la sua risonanza internazionale a un testo trascurato inspiegabilmente dagli specialisti: Le us et coustumes de la mer, una raccolta di norme di diritto marittimo curata da Étienne Cleirac e pubblicata a Bordeaux nel 1647.

Il suo Medioevo è un misto di realtà e finzione. Come ricorda Trivellato, allora si sapeva che l’assicurazione delle navi e la cambiale erano prerogativa dei grandi mercanti-banchieri cristiani, ossia della classe dirigente dei Comuni italiani e del Nord-Europa. All’epoca i prestatori ebrei si limitavano per lo più ad accordare prestiti ai poveri in cambio di pegni e ai principi in cambio della facoltà di risiedere, pur con molte restrizioni, nello Stato. I banchieri ebrei bassomedievali accesero la fantasia di Cleirac poiché vedeva in loro l’incarnazione degli usurai palesi (“usurarii manifesti”), coloro che prestavano in pubblico, tenendo bottega in spazi designati, portando segni distintivi sui loro abiti, non diversamente dalle prostitute. L’immagine che Cleirac aveva degli ebrei era prigioniera del passato, ma il suo successo va ascritto alle preoccupazioni, assai diffuse tra i suoi contemporanei, relative alla crescente impersonalità degli scambi di mercato.Un  fenomeno che minacciava di sgretolare gerarchie sociali consolidate e forme di autorità di antica data, se non addirittura di ispirazione divina.

Come abbiamo visto, sotto la penna di Montesquieu l’invenzione attribuita ai traditori di Cristo diventa invece un simbolo della modernità. Un despota, magari per placare sentimenti popolari antigiudaici, poteva essere tentato di confiscare terre, case, lingotti o merci, ma certo non pezzi di carta che non era in grado di riscattare. Una volta limitati nel loro potere di depredare, ai sovrani non restò che comportarsi “con maggiore saggezza di quanto non avrebbero pensato essi stessi”; così, infine, l’Europa potè cominciare “a guarire dal machiavellismo e si continuerà a guarirne tutti i giorni”. Nel frattempo, sempre secondo Montesquieu, la Chiesa, che equiparava il commercio alla “mala fede”, perse la sua presa sulla società e “i teologi furono obbligati a ridurre i loro princìpi”. Con l’ascesa dello spirito del commercio, la moderazione trionfò nelle sfere del governo e dei costumi sociali: “è una fortuna per gli uomini trovarsi in una condizione tale che, mentre le passioni ispirano loro l’idea di essere malvagi, il loro interesse è non esserlo” (XXI, 20).

L’interpretazione della genesi della società mercantile tracciata da Montesquieu esercitò una forte influenza in Francia e in Europa, fornendo la più autorevole formulazione della teoria del “doux commerce”: “Il commercio guarisce dai pregiudizi distruttori, ed è quasi una massima generale che ovunque vi sono costumi miti, v’è commercio; e che ovunque v’è commercio, vi sono costumi miti” (XX, cap.1). Non per caso, dopo la pubblicazione dello Spirito delle leggi, la cambiale cominciò a comparire accanto alle tre grandi invenzioni -la stampa, la bussola e la polvere da sparo- considerate, sulla scia di Francesco Bacone, le levatrici del mondo moderno.

 

 

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