L’esercito di Israele ha attaccato il quartier generale dell’Unifil, la missione di peacekeeping dell’Onu schierata nel sud del Libano. Sono state colpite tre basi a Naqoura, due sotto il controllo italiano e una sotto controllo indonesiano, e sono rimasti feriti due “caschi blu”.
Secondo l’Onu, Israele deve “dare spiegazioni delle proprie azioni”. Il governo israeliano ha chiesto di evacuare le postazioni lungo il confine tra Israele e Libano, ma i militari dell’Unifil hanno respinto la richiesta, dicendo di voler rimanere “a fare il nostro dovere”.
LE DICHIARAZIONI DEL PORTAVOCE UNIFIL, ANDREA TENENTI
Intervistato da Repubblica, il portavoce della missione Unifil, Andrea Tenenti, portavoce della missione Unifil, ha spiegato che “i bombardamenti intorno alla base ormai sono quotidiani, quindi chi era all’interno non è stato colto di sorpresa. I livelli di allerta per la sicurezza erano già al massimo. Avevamo avuto già avvisaglie di pericolo reale, con colpi vicinissimi. Paradossalmente, ieri non è stato subito chiaro che la torretta era stata colpita, perché si trova all’estremità della base. Alcuni colpi arrivati nei giorni scorsi sembravano più vicini: ma poi i colleghi che erano a Naqoura hanno capito che c’erano dei feriti, e tutto è cambiato”.
Quanto alla richiesta israeliana di allontanamento, Tenenti ha detto che “nella missione ci sono 10.400 caschi blu provenienti da 50 Paesi. La decisione finale spetta al Consiglio di sicurezza, ma io posso dirle che nessuno dei Paesi in questi giorni ha mai pensato ad andare via. Non è una nazione che può dirci cosa fare”.
“Capisco che se ne sia parlato poco perché tutta l’attenzione era su Gaza: ma Unifil è sotto attacco da un anno. E nonostante ciò continua a lavorare”, ha aggiunto il portavoce.
Alla domanda se il lavoro di Unifil sia troppo debole, Tenenti ha risposto che “per 18 anni […] Unifil ha mantenuto la tranquillità nel sud del Libano, nonostante non siano mancati i momenti di tensione. Le critiche sono legittime, ma non spetta a Unifil implementare la risoluzione: spetta alle parti in causa. Noi abbiamo organizzato decine di trilaterali in questi anni per far parlare le due parti. Chi pensa che una soluzione radicale di tipo militare sia la risposta a mio parere sbaglia”.
L’ANALISI DEL PROF. ANDREA MOLLE
Su X Andrea Molle, professore di Relazioni internazionali alla Chapman University della California, ha spiegato che “i problemi sono due e invocare l’uno per glissare sull’altro non è corretto: Unifil ha fallito miseramente il suo obiettivo, a causa di ridicole regole di ingaggio, etc; Israele non può colpirne le basi e non aspettarsi la giusta reazione dei paesi che ne fanno parte”.
“Ben ha fatto dunque Guido Crosetto a reagire duramente”, ha aggiunto. “Ma bene fanno anche quelli che dicono che o Unifil garantisce dei risultati oppure debba essere chiusa. La missione di Unifil, emendata in più occasioni, consiste nel supportare il governo libanese nel ristabilire la propria autorità nell’area. Questo ovviamente ai discapito di Hezbollah. Missione evidentemente fallita. Ora non può diventare un mero ostacolo a Israele”.
“Allo stesso tempo, Israele non può unilateralmente imporre a #Unifil di andarsene, soprattutto usando la forza”. Secondo Molle “serve un chiarimento ed eventualmente un ritiro concordato, nel rispetto del mandato Onu e la protezione dei civili”, ha concluso il professore.
TUTTI I FALLIMENTI DELL’UNIFIL IN LIBANO
Sul Corriere della Sera Andrea Nicastro, esperto di esteri e inviato a Beirut, ha scritto che “come nell’intervento internazionale in Afghanistan, anche per la missione dell’Onu in Libano spiccano più i fallimenti rispetto ai successi. Ma com’è successo in Afghanistan se i soldati internazionali dovessero ritirarsi la situazione per il Paese diventerebbe tragica”.
La missione Unifil, prosegue, “non è riuscita ad assistere le forze armate libanesi nel ristabilire il controllo del territorio. Il Sud del Libano, dove operano gli oltre 10 mila caschi blu, è stato per anni sotto occupazione di Israele e poi di gruppi armati cristiani alleati di Tel Aviv. Quando sono arrivati i soldati di pace (1978) avrebbe dovuto tornare sotto il potere del governo ufficiale di Beirut e invece è rimasto sostanzialmente in mano a chi l’aveva liberato: le milizie del Partito di Dio Hezbollah”.
L’Unifil, inoltre, “non è riuscita a impedire che Hezbollah e Israele si sparassero attraverso il confine”, ossia la cosiddetta “linea blu”. Il terzo e più recente fallimento della missione sta nel non essere riuscita “a impedire che Israele invadesse di nuovo il Libano come aveva fatto nel 1978, nel 1982 e nel 2006”.
Secondo Nicastro, tuttavia, sarebbe sbagliato pensare che Unifil non sia servita a nulla, avendo “aiutato lo sviluppo dell’area, difeso i civili, abbassato la tensione quando le due parti si stuzzicavano, ma soprattutto è riuscita a disegnare la ‘linea blu’, il ‘confine provvisorio’ marcato con bidoni di petrolio dipinti di blu”.
COSTI E MORTI
Il costo della missione Unifil, alla quale partecipano decine di Paesi, è di oltre 500 milioni di dollari all’anno. L’Italia contribuisce con 150 milioni.
I soldati di pace morti sono stati più di trecento.
PERCHÉ ISRAELE VUOLE CANCELLARE UNIFIL?
Secondo Nicastro, ci sono due risposte possibili a questa domanda.
La prima è che Israele non vuole l’Unifil “per non avere testimoni dei suoi combattimenti, ad esempio dell’uso di armi chimiche vietate come il fosforo bianco (già denunciato dall’Onu): sarebbe la stessa ragione che ha spinto l’esercito di un Paese che si considera democratico ad accettare giornalisti a Gaza solo con il proprio accompagnamento”.
L’altro motivo è invece di carattere tattico. Le forze israeliane, infatti, “stanno penetrando in territorio libanese soprattutto dalle fattorie Shebaa che sono al limite di nord-est del Libano meridionale. Se Unifil si ritirasse si aprirebbe un corridoio lungo la costa, a sud-ovest dell’area contesa. Gli israeliani potrebbero così realizzare una classica manovra a tenaglia con le unità provenienti dalle fattorie. I combattenti di Hezbollah sarebbero in trappola”.
Tuttavia – conclude Nicastro – “come in Afghanistan, se la comunità internazionale scappasse e permettesse un’operazione del genere, la credibilità dell’intero sistema di relazioni diplomatiche ne uscirebbe moralmente a pezzi”.