La follia woke ha segnato un altro punto. Sarah Dzafce, Miss Finlandia, perde il titolo perché su un post ha mimato gli occhi a mandorla, scrivendo «Mangiare con un cinese». Proteste social, lei si è prima malamente giustificata (mi stavo massaggiando gli occhi) e poi scusata ma Finnair e Miss Suomi hanno preso le distanze, il titolo è passato alla seconda classificata ed è stata esclusa anche da Miss Universo. Il premier Petteri Orpo (il governo finlandese ha imposto corsi antirazzisti ai ministri) ha definito il gesto «scriteriato e stupido», il partito di destra Veri Finlandesi l’ha difesa.
Ora, prima di tutto c’è un’obiezione ontologica e metodologica, considerato anche il precedente diffuso sui social dell’AI che, richiesta di disegnare un orso con gli occhi a mandorla, si è rifiutata per non apparire razzista. Ma lo stigma è negli occhi di chi guarda o nella testa di chi lo proclama? Perché mimare il soma asiatico sarebbe discriminatorio se la bellezza orientale è da tutti apprezzatissima? E poi lo sberleffo, lo sfottò, l’occasionale presa in giro è davvero un male? Per quanto le nostre conoscenze dicono, secondo gli studi psico-sociologici il rischio di discriminazione passa assai più per il nascondimento che non per la relazione di questo tipo.
E poi c’è la quaestio censoria, il politicamente corretto ertosi a moralismo preventivo, controllo di ciò che si può dire e fare e del molto che viene vietato perché potenzialmente offensivo. Questione all’ordine del giorno come un tormentone di accuse speculari. Citiamo le più recenti. In primis Meloni ieri alla Camera che, evidenzia Fausto Carioti su Libero, denuncia la sinistra capace di «chiedere la censura delle case editrici di libri non graditi e invocare la libertà di espressione a difesa di chi inneggia ai terroristi». Poi Filippo Facci sul Giornale avverte che Barbara Floridia, presidente M5S della Commissione di Vigilanza, accusa la Rai di trasmettere troppa cronaca nera: è una strategia per influenzare il referendum sui magistrati, una “cornice narrativa” per distrarre e orientare i pubblici. Parla di “TeleMeloni”, denuncia l’occupazione dei palinsesti, richiama Tg5 negli anni ’90 e fascismo (ça va sans dire: ma con tutto questo regime, come mai la Presidenza Rai è congelata da oltre un anno?). Lodovico Festa ancora su Libero ricorda le contestazioni contro l’editrice “Passaggio al Bosco” a Più libri più liberi, Macron col bollino per i siti affidabili, la multa europea a Twitter/X per violazioni del Digital Services Act, la Polonia dove il nuovo governo interviene sui media pubblici, The Hall of Fame negli USA per monitorare i media cattivi. Infine Alberto Barachini, sottosegretario all’editoria, dopo che l’ambasciata russa ha perculato Stampa e Repubblica, dice che gli attacchi vanno “rispediti al mittente con forza”.
Tutto giustissimo, ma più che chiederci se la libertà sia sotto attacco, dovremmo domandarci se ci interessa difenderla. La facciamo cortissima, ma i valori fondanti del ‘900 occidentale (pace, progresso, lavoro e, appunto, libertà e democrazia) sono in calo di consenso e il pennacchio della libertà di espressione non ne copre il vuoto. Il divieto talvolta esiste eccome, basti ricordare la Cina: Li Ying, dissidente attivo in Italia che con White Paper protesta contro la politica zero-Covid, è vittima di una campagna di repressione con conti congelati, famiglia minacciata e telecamere davanti all’abitazione, tanto che Congresso e ambasciatrice USA ne sollecitano la protezione. Ma nel suo Paese l’apparente libertà di costumi mostrati a una telecamera ogni 20 metri di strada dà l’impressione che tutto vada bene.
E comunque una cosa è certa, cara Sarah. Non potremo più stirarci le rughe.






