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Che cosa non si è detto su Matteotti (e su Giuseppe Fanin)

Non solo Matteotti. Nell’anno in corso c’è stato un altro centenario che meritava di essere ricordato: quello della nascita di una persona innocente vittima anch’essa dell’odio politico. Si chiamava Giuseppe Fanin. Il commento di Cazzola

Il 2024 è stato un anno di ricorrenze centenarie che hanno suscitato accesi dibattiti in un Paese in cui le forze politiche non chiedono all’opinione pubblica e all’elettorato  di confrontarsi su questioni di merito, ma di schierarsi  comunque e senza alcun dubbio o ripensamento con la propria parte.

In particolare, come è già avvenuto nel trentennio berlusconiano, la sinistra si rifiuta di riconoscere la legittimità del centrodestra. Con Berlusconi c’era la questione giustizia, fin dalla vittoria elettorale del 1994, quando mentre il Cav presiedeva un vertice internazionale a Napoli la procura di Milano gli trasmise a mezzo stampa un avviso di garanzia per un reato infamante. Oggi abbiamo la conferma – dopo l’intervista del Cardinale Ruini, che ci fu di mezzo anche lo zampino del Quirinale.

Soltanto attraverso una lunga e accanita persecuzione giudiziaria che non si è interrotta neppur con la sua morte, la sinistra politica e giudiziaria è riuscita a neutralizzare l’anomalia del Cav. Lo stigma giudiziario si rivelò più agevole da perseguire (anche perché Berlusconi ci mise molto di suo) dell’insistenza su di un altro filone di delegittimazione: l’accusa di non essere decisamente antifascista, anche perché Berlusconi riuscì a sdoganare quei neofascisti da sempre emarginati negli schemi delle alleanze della Prima Repubblica.

Più fortuna ebbe lo sdoganamento della Lega di Umberto Bossi dalle pulsioni secessioniste, ben presto ricondotte  in un alveo federalista che tentò anche la sinistra, al punto di intestarsi l’unica riforma (del Titolo V) realizzata. Il tentativo del federalismo fiscale non riuscì ad andare in porto per i medesimi motivi che oggi complicano l’autonomia differenziata: assicurare i livelli essenziali di protezione (LEP) un obiettivo irrealizzabile perché prima di tutto occorrerebbe definire i livelli essenziali delle amministrazioni pubbliche e della società civile tra Nord e Sud.

Tornando al filone centrale dei rapporti tra le forze politiche, la mancata legittimazione della destra, nella sua componente più strutturata e fino ad ora esclusa si basa addirittura su di un elemento esistenziale: la condivisione dell’antifascismo come criterio fondamentale della Repubblica è il solo criterio per l’ammissione nel club della governabilità; altrimenti si è considerati degli usurpatori, come se dei musulmani si impadronissero del Vaticano.

La destra meloniana è considerata una forza che abusa del potere perché non avrebbe diritto di esercitarlo, essendo le sue radici nelle forze sconfitte nella guerra e dalla Resistenza. Per la sinistra e il suo entourage in tutti i settori del vivere civile è una leccornia trovare un fatto, un atteggiamento, un episodio, una frase che consentano di accusare la destra di non essersi mondata dei suoi vizi esistenziali, del suo peccato originale. Trovare una foto col saluto romano sembra essere più ambita che fara cadere o riuscire a modificare un provvedimento in commissione o in Aula. La gran parte di queste iniziative sono speculazioni miserabili (come quella di inserire giornalisti sotto copertura negli ambienti meloniani in funzione di agenti provocatori); ma ci sono anche eventi apparentemente nobili.

E a questo punto ritorniamo alla celebrazione dei centenari. Mi sono convinto, ad esempio, che tutto il fervore per vicenda politica e umana di Giacomo Matteotti sia dovuto in una certa misura al fatto che governa la destra accusata di non aver abiurato il fascismo. E si sono pesate tutte le parole che Meloni ha detto nella sua commemorazione contro la dittatura fascista, dimenticandosi gli altri, i “puri”, di aver ricordato  che Matteotti era un socialista riformista, cacciato, insieme a Turati e agli altri, su richiesta di Lenin, dal PSI governato dai massimalisti filo sovietici.

Un tempo “riformista” era considerata una parola malata. Se chiamavi qualcuno con quell’appellativo ti rispondeva che lui era un “riformatore”. Nell’anno in corso c’è stato un altro centenario che meritava di essere ricordato: quello della nascita di una persona innocente vittima anch’essa dell’odio politico. Si chiamava Giuseppe Fanin, era nato nel 1924 a San Giovanni in Persiceto nella pianura bolognese. Molto religioso, dopo un periodo passato in seminario si era dedicato agli studi laureandosi in agraria. Era un dirigente dell’Acli-Terra e stava lavorando alla costituzione e all’organizzazione della CISL dopo la scissione del 1948. Nel novembre di quell’anno mentre, di sera, rientrava a casa in bicicletta recitando il rosario, cadde nell’imboscata di un commando di comunisti (una cheka strapaesana) che avevano ricevuto l’ordine dal segretario della sezione del paese di dargli una lezione con bastoni e sbarre di ferro. Lo lasciarono per terra  in fin di vita. Morì nella notte all’ospedale senza riprendere conoscenza. Oggi le Acli sono una componente essenziale della Via Maestra di Maurizio Landini.

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