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Tunisia

Chi vince e chi perde col Mattarella bis

Sergio Mattarella resta presidente della Repubblica. Ecco perché. L'analisi di Gianfranco Polillo (che in questo articolo per Startmag di giorni fa lo aveva previsto e auspicato)

 

Perché Mattarella sarà rieletto presidente della Repubblica.

Siamo giunti forse alla fine di un regime? Troppo presto per dirlo, ma gli indizi ci sono tutti. In pochi giorni è stata bruciata ogni ipotesi di bipolarismo, quale elemento organizzativo della polis. Il disegno di un’alleanza organica tra PD e 5 stelle, che doveva costituire il presupposto della strategia del cosiddetto “campo largo”, è venuta meno. Mentre il cemento del vecchio centro destra, si é sgretolato, dopo la fuoriuscita di Silvio Berlusconi e la maldestra leadership di Matteo Salvini.

Rimangono i cocci che qualcuno, in prospettiva, dovrà rimettere insieme per ridare al sistema politico italiano una parvenza di razionalità. Ma non sarà né semplice né facile. La crisi politica del Paese dura ormai da troppo tempo. E le follie che hanno accompagnato, tra lo sbigottimento generale, il tentativo di eleggere il Presidente della repubblica altro non sono state che la coda velenosa di una vicenda ben più complicata. Che lascia sul terreno un esercito di colpevoli, ciascuno dei quali con una sua propria e specifica responsabilità politica.

È dalla crisi del 2011 che non solo il sistema politico, ma la società italiana, non si è più ricomposta. Lo dimostra il fatto che, da allora, non è stato più possibile avere un Presidente del consiglio eletto dal popolo, secondo gli schemi del bipolarismo. A questa debolezza avevano fatto fronte le risorse tipiche del proporzionalismo. Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni erano stati autorevolissimi esponenti di una forza politica, che aveva comunque conquistato la maggioranza relativa. E quindi legittimati a governare da quella più antica tradizione.

Poi la vicenda di Giuseppe Conte: quel perfetto sconosciuto che, all’improvviso non solo si trovava catapultato nell’agone politico, ma nel ruolo che in passato era stato occupato da uomini come De Gasperi, Fanfani, Moro, Craxi e via dicendo. Decisamente un salto verso il baratro. Non perché il personaggio non fosse degno, ma a causa dell’ulteriore caduta dei presupposti sui quali si era sempre retta la regola della rappresentanza. Di quella prassi, cioè, che, almeno fino a Gentiloni, voleva che il Capo dell’esecutivo, “che dirige la politica generale del governo” (art. 95 Cost.), avesse almeno una sorta di patente per svolgere quelle incombenze.

Ed infine la decisione di Sergio Mattarella, di fronte alla crisi dell’alleanza giallo-rossa, ed il rischio di una degenerazione verso le forme più bieche del “parlamentarismo” (bestia nera fin dai tempi della Costituente) di proporre Mario Draghi alla guida del Governo. Anche lui, certamente estraneo alla politica politicante, ma in grado di offrire, grazie ad una carriera prodigiosa, nelle grandi Istituzioni italiane ed internazionali, la garanzia di un possibile riscatto.

Era la soluzione definitiva? Lo sarebbe stato se il diavolo, nelle sembianze delle scadenze politiche, non ci avesse messo la coda. Ed invece il tempo, ancora una volta, doveva dimostrarsi tiranno. Nel suo iperscrupolo costituzionale, lo stesso Presidente della repubblica, nel timore di dare all’Italia una curvatura quasi monarchica, aveva escluso, con larghissimo anticipo, l’ipotesi di una sua rielezione. Lui stesso, tuttavia, aveva sottovalutato lo spessore della crisi italiana, ritenendo che una sorta di “commissariamento” di pochi mesi sarebbe stato sufficiente per determinare una generale rigenerazione.

Purtroppo così non è stato. E non lo sarà almeno fin quando, altre condizioni permettendo, non si arriverà alle prossime elezioni. Quel grande lavacro democratico che comunque dovrebbe ricomporre la frattura tra “Paese legale” e “Paese reale”. Fattore non secondario di accelerazione della crisi, nel prevalere dei calcoli politici dei singoli protagonisti. Ed ecco allora che per ragioni seppure diverse, Fratelli d’Italia che vuole bruciare i tempi del confronto elettorale, avendo il merito di dirlo apertamente.

Ma sulla stessa lunghezza d’onda si muovono, seppur con intensità diversa, lo stesso Giuseppe Conte, che vorrebbe disegnare a sua immagine e somiglianza il nuovo Movimento ed Enrico Letta, in sofferenza nei complicati equilibri dei suoi gruppi parlamentari. Resistono, invece, tutti gli altri. A partire dalla stragrande maggioranza dei parlamentari che cercano di allontanare il più possibile la data della festa del ringraziamento, quando i tacchini saranno sacrificati.

Le elezioni saranno risolutive? E chi può dirlo! Saranno comunque un passaggio necessario. Avverranno, tra l’altro, in un momento drammatico nella vita di un Paese, che ha bruciato ogni ponte con il suo passato e che ora è costretto a guardare avanti, ponendo fine alle fissazioni delle generazioni più vecchie. Una vita spesa nei meandri di quel “secolo breve” che ancora vive solo nella testa di tanti politici. Ed orienta ancora la scelta di gruppi dirigenti, sempre più marginalizzati.

Prima che si raggiunga questa scadenza, tuttavia, in una deriva senza più governo, è stata l’intelligenza collettiva del Parlamento a prevalere. Lo diciamo senza retorica. Molti osserveranno che dietro quella decisione vi sono cose state cose poche edificanti. Difese del proprio piccolo tornaconto, il tentativo di dilazionare nel tempo il privilegio di poter vivere, fino alla fine, una vita diversa e via dicendo. Ma questi cascami, per così dire, altro non sono che un ulteriore aspetto della crisi. Nei grandi avvenimenti ci sono sempre stati. Ma non hanno mai fermato il decorso della storia.

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