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Quale “focolare” per i palestinesi?

L'intervento di Giordana Terracina.

In questi giorni, per la Festa della Repubblica, il presidente Sergio Mattarella non si è limitato, come negli anni scorsi, a rilasciare dei semplici saluti, ma, davanti ai capi delle missioni diplomatiche, ai presidenti di Senato e Camera, alla premier Giorgia Meloni e al presidente della Corte Costituzionale, ha rivolto un appello per la popolazione civile di Gaza. In tale contesto, oltre a ricordare i prigionieri israeliani ancora in mano ai terroristi di Hamas, ha chiesto il rispetto delle norme del diritto umanitario, il cessate il fuoco e ha ribadito che “i palestinesi hanno diritto al loro focolare entro confini certi”.

L’espressione usata rimanda a un concetto quello del “focolare” già noto alla storia, in particolare a quanto statuito nella dichiarazione Balfour del novembre 1917, dal nome del ministro degli Esteri britannico, Lord Arthur James Balfour. Si trattava di una lettera indirizzata a Lord Rothschild, in cui si manifestava il pieno appoggio alle aspirazioni sioniste già sottoposte al Consiglio dei Ministri e da esso approvate. Con ciò risultava il favore del Governo inglese verso la creazione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico e il suo impegno per la realizzazione del programma, che doveva eseguirsi senza pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche presenti sul territorio o i diritti e la posizione politica di cui godevano gli ebrei in ogni altro paese. La Gran Bretagna, con questa dichiarazione prendeva su di sé il compito di aiutare i sionisti a costituire in Palestina il loro progetto. La scelta di campo era stata dettata dalla difficile situazione con cui procedeva la guerra.

Molte navi inglesi erano state affondate dai sommergibili tedeschi e l’America ancora non era pronta a venire in aiuto, mentre l’Italia era ferma a causa della sconfitta di Caporetto. L’unica via percorribile era quella di cercare di bloccare le commesse di materiale bellico tedesche, rivolgendosi agli ebrei americani, in grado di esercitare una qualche influenza sul loro Governo. Inoltre, la Palestina rappresentava un’ottima base strategica nel Mediterraneo, con i suoi porti in cui transitava il petrolio arabo e con la sua posizione che permetteva di controllare l’espansione francese nell’area. L’imperialismo britannico con la sua politica espansionistica aveva trovato un alleato interessante.

Di fronte alla dichiarazione del Governo inglese favorevole alla nascita di un focolare nazionale ebraico, si presentò l’incertezza del Governo italiano, che faticò a trovare la sua posizione ufficiale. L’Ambasciatore italiano a Londra, il marchese Imperiali, che ebbe il compito di dare la comunicazione al ministro degli Affari Esteri Sonnino, in un suo rapporto del 16 novembre del 1917, parlò di “creazione di uno Stato Ebraico” in luogo del national home for Jewish people, lasciando intendere il pieno accordo del Governo da lui rappresentato. A queste parole il ministro successivamente fu costretto a replicare con una rettifica che così recitava: “nella intesa però che non ne venga nessun pregiudizio allo stato giuridico e politico delle già esistenti comunità religiose e ai diritti civili e politici che gli ebrei già godono in ogni altro paese”.

Sulla stessa linea si muoveva intanto anche il Console italiano in Egitto, Negrotto Cambiaso, il quale nell’aprile del 1918 in un appunto scrisse che non si pensava al momento “di creare senza altro un vero organismo statale, ma soltanto di favorire l’aggruppamento e lo sviluppo di nuclei ebraici, i quali, se si dimostreranno dotati di sufficiente vitalità, potranno, in un avvenire più o meno lontano, costituire il centro della futura nazione giudaica”.

Un’incertezza di cui si conosce l’esito finale con la nascita dello Stato d’Israele nel 1948 e con la venuta dell’ambasciatore italiano a Tel Aviv già nel 1949, a seguito del riconoscimento del nuovo Stato.

Un’incertezza che si ripresenta oggi con nelle parole del presidente, con il rinvio a un concetto che già in passato aveva creato dibattiti e che si trova indirizzato questa volta verso il popolo palestinese.

Nella metà degli anni ’60, e precisamente il 28 maggio 1964, nacque l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, OLP. Con essa si aprì una forte discussione sul contenuto della Carta nazionale e degli statuti, dove risultava assente ogni riferimento a ogni tipo di sovranità del popolo palestinese o dell’OLP o a uno Stato palestinese. Fu solo dopo la guerra del 1967 che, tra le modifiche apportate alla Carta, apparve accanto al carattere arabo della lotta di liberazione anche l’aspetto palestinese della lotta diretta a esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione. Una riflessione che negli anni concorse a porre in luce la mancanza di una visione sullo Stato come entità giuridica, definita da uno spazio, da una popolazione, da un apparato statale, da una personalità giuridica internazionale e infine da una sovranità. E fu ancora la guerra del 1973 a condurre l’OLP verso il concetto di “potere nazionale” e poi quello di Stato “su ogni parte liberata”, accettando di fatto quando era stato previsto nella spartizione del 1947, rifiutata nella convinzione dei Paesi arabi di poter cancellare in breve tempo il nuovo Stato ebraico. Neanche la presenza di Yasser Arafat davanti all’Assemblea generale dell’ONU del 1974, il suo riconoscimento dell’esistenza dello Stato di Israele nel 1988 o la firma degli Accordi di Oslo nel 1993 contribuirono a porre fine alla scelta del terrorismo e a intraprendere la via univoca della strada della diplomazia.

Un’ambiguità che creò un vuoto e rese l’OLP incapace di gestire il forte senso di frustrazione dei giovani che nel 1987, anno di inizio dell’Intifada, non conoscevano altra esperienza di vita se non quella dell’occupazione dei territori e della gestione della resistenza da parte della “solita” dirigenza.  Fu in tale contesto che i Fratelli Musulmani, il 14 dicembre 1987, diffusero un volantino firmato dal Movimento della resistenza islamica, con cui invitavano la popolazione a intensificare la ribellione, ponendosi di fatto come alternativa al nazionalismo palestinese. Le iniziali in arabo del Movimento, HMS (Harakat al Muqawarna al Islamiyya), sono oggi meglio conosciute come Hamas, zelo.

Senza soffermarsi sui fatti noti del 7 ottobre 2023 e della successiva guerra tra Israele e Hamas, sull’esplosione di antisemitismo scaturito e infine sugli effetti di una propaganda tossica, la domanda da porsi è quale sia il senso attuale dell’affermazione del presidente Mattarella e come sia possibile intraprendere la strada dei negoziati internazionali per giungere alla costituzione di un nuovo Stato, che non abbia la sua origine nel sangue innocente, sia esso israeliano o palestinese.

E di come la nozione di “focolare” si possa declinare rispetto ai portatori di un’autenticità islamica, arroccati sullo slogan “dal fiume al mare”, senza che sia fornita al popolo palestinese un’alternativa seria e fattuale al terrorismo islamista di Hamas.

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