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Mattarella con Wang Yi? Sono critico, ecco perché. Parla il prof. Pelanda

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto venerdì scorso il capo della diplomazia del Partito comunista cinese, Wang Yi. L'analisi di Carlo Pelanda, analista, saggista e docente di Geopolitica economica

 

Venerdì scorso a Palazzo del Quirinale il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto il capo della diplomazia del Partito comunista cinese, Wang Yi, evento che ha avuto ampia risonanza tanto nei media italiani quanto in quelli cinesi, ben lieti di dare risalto alla solenne accoglienza riservata a Wang.

Per queste stesse ragioni, l’incontro ha suscitato qualche alzata di sopracciglio in Italia, dove non si è mancato di notare l’asimmetria tra i due interlocutori.  Su questa anomalia Start Magazine ha sentito il parere di Carlo Pelanda, analista, saggista e docente di Geopolitica economica all’Università degli Studi Guglielmo Marconi, autore non a caso di un articolo esplicitamente critico.

Parliamo di questo colloquio al Quirinale di Wang Yi, come lo giudica?

Sono perplesso. Troppo evidente l’asimmetria istituzionale nel mettere insieme attorno a un tavolo un Capo di Stato e un funzionario di partito. Wang Yi non è il Ministro degli Esteri, anche se lo è stato, e adesso è stato trasferito al Comitato Centrale del Partito per la responsabilità degli Affari Esteri: è una posizione certamente importante perché si tratta del suggeritore diretto di Xi Jinping. Però sul piano formale – e in diplomazia la forma è sostanza – resta un funzionario di partito. È dunque una sbavatura troppo evidente per non essere rilevata.

Cosa tradisce questa asimmetria?

Certamente una sorta di cedimento. Quando si fanno riconoscimenti così formali, allora si ritiene di essere in una posizione inferiore, La domanda è se il Quirinale abbia fatto bene o male a fare questo tipo di operazione. Secondo me male, perché c’è un importante sforzo di Pechino di aprire una nuova fase diplomatica per rimediare a una serie di errori e soprattutto all’ostilità che ha creato nel mondo. Ma prima di concedere pubblicamente tale riconoscimento bisogna porre delle condizioni, perché Pechino ha comportamenti di tipo ostile e aggressivo che non possono essere compensati con l’abile azione di un diplomatico consumato come Wang.

Sul piano della comunicazione per Pechino è stata una vittoria assoluta, a giudicare almeno dalla messe di articoli sulla stampa e sul web dove era tutto un gran ripetere le affermazioni di Wang come quella in cui si sottolinea testualmente che “Cina e Italia sono partner naturali nella costruzione congiunta della Belt and Road” È così?

Certamente. Sono state violate tutta una serie di regole di pensiero strategico. C’è da dire tra l’altro che i consiglieri diplomatici del Quirinale le sanno queste cose, e allora c’è da chiedersi: come mai hanno fatto questo errore? Qui non ho una risposta univoca ma posso provare ad immaginare.

Proviamo.

Primo punto: c’è una competizione con Francia e Germania per avere buone relazioni commerciali con la Cina? Sì, però la Germania è costretta a farlo perché è ricattata, nel senso che la sua industria dipende moltissimo da Pechino; la Francia dal canto suo fa un gioco tutto suo a livello internazionale che è pericoloso. Quindi inseguire la Germania che è ricattata e la Francia che ha un modo suo anomalo di muoversi sul piano internazionale è sicuramente un pericolo per l’Italia. La cosa giusta sarebbe stata fare una cosa diversa da Francia e Germania, mentre il Quirinale sembra aver voluto competere per sudditanza nei confronti della Cina.

Da cosa si può desumere questa sudditanza?

Dal fatto che, proprio nel momento in cui gli Usa ammonivano pubblicamente a non dare sostegno militare alla Russia, il nostro Presidente della Repubblica diceva che dobbiamo collaborare con la Cina per la pace. Diciamo che l’Italia è caduta in quella strategia tipicamente cinese della trappola lenta: prima ti incastro in una dichiarazione apparentemente neutra dalla quale non puoi tirarti indietro e poi ti porto dove voglio io. Pechino vuole portare l’Italia a unirsi al coro degli idioti che invocano un ruolo della Cina come mediatore per far finire la guerra in Ucraina: una cosa che non ha senso perché Putin non avrebbe invaso l’Ucraina se non avesse avuto il via libera da Pechino. Alla Cina invece bisognerebbe comunicare che dovrebbe dire al suo alleato di darsi una calmata, altrimenti finirà per essere coinvolta nel meccanismo delle sanzioni secondarie, che è esattamente il messaggio che in questo momento stanno trasmettendo gli Usa.

A Washington dunque non avranno preso benissimo l’incontro al Quirinale.

In realtà gli americani capiscono la nostra posizione. Loro sanno che l’Italia non rinnoverà l’accordo con la Cina sulla Via della seta. Sanno inoltre che l’Italia partecipa al blocco guidato dagli Usa che vuole negare alla Cina l’accesso a tutta una serie di tecnologie avanzate e sanno che l’Italia ha intrapreso una bonifica delle relazioni tossiche con Pechino. Quindi non c’è una preoccupazione molto forte, direi piuttosto che c’è stupore. Probabilmente a Washington si rendono conto che l’Italia deve in qualche modo tener conto del Vaticano, che sulla Cina ha una posizione molto accomodante. Resta il fatto che l’Italia non ha fatto buona figura e questo la indebolisce.

Tra l’altro il Quirinale ha rischiato di innescare un conflitto con un esecutivo come quello di Giorgia Meloni che sulla Cina ha posizioni molto distanti.

Poiché l’errore compiuto dal Quirinale è così evidente, c’è da chiedersi se il Quirinale sta facendo un’azione contraria rispetto al governo o se invece sta cercando in qualche modo di attutire sul piano diplomatico il fatto che l’Italia non firmerà il rinnovo del Memorandum sulla Via della Seta. Naturalmente questo non lo sappiamo, ma è tutto talmente anomalo che ci si potrebbe domandare se sia stato il governo a chiedere al Quirinale di fare il gioco delle parti. In questo modo comunque abbiamo tempo fino a novembre per decidere come comportarci con quello sciagurato Memorandum, derubricando gli accordi a un livello normale tra Paesi nemici e limitandoci dunque a una serie di accordi settoriali che non impattino troppo sull’economia italiana.

Sono passati quasi quattro anni dalla firma di quel Memorandum. Che cosa ha prodotto in soldoni?

Nulla, salvo il fatto che ha dato un ombrello nominale per alcune operazioni di penetrazione cinese in Italia che è avvenuta attraverso corruzioni, ricatti, inserimenti di capitali con fini strategici. Ed è chiaro che questo ombrello è importante perché mette al riparo la penetrazione cinese da una serie di azioni istituzionali di contrasto che comunque, come ricordavo, ci sono state sotto la forma di iniziative di bonifica. Il governo Meloni dunque è chiamato ora a bilanciare questa necessaria azione di contrasto con l’opportunità di non compromettere del tutto le relazioni con la Cina.

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