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Le cineserie dell’ex amerikano Massimo D’Alema

Perché fa un certo effetto vedere le immagini di Massimo D'Alema alla parata di Pechino che suona come sfida di fatto agli Usa e all'Occidente. La nota di Sacchi.

Eppure c’era un tempo in cui Massimo D’Alema non esitò un attimo a dire “ci sentiamo tutti americani oggi, siamo tutti sotto attacco perché l’America è casa nostra”. L’ex premier, il primo e finora unico ex comunista ad essere salito alla plancia di comando di Palazzo Chigi, con un governo formatosi in parlamento senza elezioni come anche il governo Renzi ed altri, l’ex segretario della Fgci, esponente del gotha del Pci, poi segretario del Pds, presidente dei Ds lo disse alla sottoscritta in un’intervista scoop al settimanale Panorama, del Gruppo Mondadori, allora primo news magazine italiano.

Erano i giorni dopo l’11 settembre 2001 quando D’Alema osò sfidare l’antiamericanismo del suo partito, manifestando la sua commossa solidarietà agli Usa di George Bush junior, di “The Vice” Dick Cheney, al Paese leader dell’Occidente colpito al cuore dall’attentato alle Torri Gemelli. Il titolo su Panorama diretto da Carlo Rossella era “Americano e me ne vanto”.

È vero che era un’ epoca fa, che ora c’è il tanto odiato Trump, ma fa lo stesso un certo effetto vedere ora le immagini del “Leader Maximo” alla parata di Pechino che suona come sfida di fatto agli Usa e all’Occidente. Eppure D’Alema, il comunista forse più stimato da Francesco Cossiga, che con la sua Udr fece con lui il governo nel 1998, dopo la crisi del primo governo Prodi aperta da Fausto Bertinotti, è stato l’esponente dell’ex Pci e succedanei, dopo i cosiddetti miglioristi, che più si è spinto su terreni considerati eretici per l’ortodossia comunista.

Sembra paradossale, ma lo ha fatto molto più di altri leader magari più coccolati dai media di area, dal carattere all’apparenza meno spigoloso del suo, ma di fatto meno coraggiosi di lui. Il punto è però che D’Alema ogni volta che ha provato a portare il suo partito oltre il comunismo si è fermato a metà. A metà del guado. Rimanendo di fatto “prigioniero del suo comunismo”, disse qualcuno.

Ci provò con la riforma delle pensioni ma si fermò di fronte all’ira di Sergio Cofferati, capo della Cgil che invece passava per riformista. Si dimise da premier per le Regionali per aver perso una Regione, la sua Puglia, dopo aver sbagliato le previsioni dicendo: “Ho sentito Tony (Tony Blair ndr) e gli ho detto che vinciamo”. Mentre in quel 2000 iniziò la rimonta di Silvio Berlusconi. Ma oggi, gli va dato atto, chi si dimetterebbe mai da premier per aver perso una Regione? Il fatto è che, detto brutalmente, D’Alema fu fatto fuori dai suoi a Palazzo Chigi. Romano Prodi, il cui vice era Walter Veltroni, gli dette il colpo finale quando nel suo intervento da ospite del congresso di Assago di Forza Italia definì “La Bicamerale del nulla” il tentativo di D’Alema di fare le riforme con il “nemico” Berlusconi, da lui, a differenza di altri a sinistra apparentemente più innocui , trattato come avversario politico. Era il tempo dei “Dalemoni”.

D’Alema non ricevette dai giornali del gruppo allora Scalfari-Caracciolo-De Benedetti lo stesso affettuoso trattamento riservato a Veltroni. Ma nei fatti il fondatore del Pd fu molto più anti-craxiano di lui. A D’Alema fu rimproverato di averlo fatto solo all’ultimo e a scopo tattico, ma è un fatto che da premier fece l’unico vero tentativo di far rientrare Craxi per curarsi in Italia e senza l’arresto. Fu bloccato da Francesco Saverio Borrelli. Craxi, che con la sottoscritta nell’intervista in “I Conti con Craxi” (MaleEdizioni di Monica Macchioni) lo definì pur con dure critiche “un figlio di partito, mentre Veltroni fa parte di un altro partito: quello di Scalfari-Caracciolo De Benedetti”, si indignò quando D’Alema premier non mise la sua firma autografa ai suoi auguri fattigli recapitare presso l’ambasciata italiana a Tunisi.

C’era solo il timbro del presidente del Consiglio in quella missiva da Palazzo Chigi prima dell’operazione ad alto rischio allo statista socialista all’Hopital Militaire di Tunisi. “Non ha avuto neppure il coraggio di firmarsi”, attaccò Craxi. Resta il fatto che nessun altro leader della sinistra, coloro che Craxi con la sottoscritta definì in blocco “i miei assassini”, fece auguri pubblici all’ex premier socialista in esilio a Hammamet. A metà del guado, senza mai compiere l’operazione con cui Tony Blair rivoltò come un calzino il suo partito per fondare il New Labour.

Ma l’operazione fallì allo stesso “rottamatore” Matteo Renzi, finito anche lui a sostenere il cartello estremista del cosiddetto campo largo di Elly Schlein, Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli con Giuseppe Conte. Un campo dalle posizioni così estremiste che D’Alema una volta con il suo vecchio Pci avrebbe liquidato seccamente “da gruppettari”.

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