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Tunisia

Cosa c’è davvero in ballo nell’elezione del capo dello Stato (Draghi?)

L'analisi di Gianfranco Polillo.

 

Pronti a scommettere che non si tratterà di una semplice elezione: una sorta di passaggio burocratico necessario per scegliere il prossimo inquilino del Quirinale. Con ogni probabilità si tratterà di una svolta dalle conseguenze che, al momento, è difficile prevedere. Se il diavolo non ci metterà la coda, l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica segnerà una svolta profonda non solo negli equilibri politici italiani, ma sul fronte istituzionale. Le premesse ci sono tutte: basta vederle con animo scevro dai condizionamenti di una falsa coscienza. Che poi altro non è che una cattiva ideologia.

A monte di tutto ciò, un Paese che non merita la sorte a cui è stato destinato per quel lungo periodo che va dalla fine degli anni ’80 ai giorni nostri. Sempre l’ultima ruota del carro, in termini di sviluppo, qualsiasi statistica si prenda in considerazione: OCSE, FMI, Commissione europea. E sarà ancora peggio nei prossimi anni, se le cose non cambieranno. Può sembrare una semplice preoccupazione da “economisti”: prigionieri di quella “scienza triste”, di cui parlava agli inizi dell’800 il filosofo scozzese Thomas Carlyle. Ma non ci vuole molto: basta guardare ai livelli di povertà diffusi, ai giovani che non trovano lavoro, al risucchio dei Neet (i ragazzi che non studiano e non lavorano), ai bassi salari e via dicendo. Per vedere come queste preoccupazioni siano reali e generali.

Potremmo continuare per dimostrare l’esistenza di quel corto circuito che è alla base di tutto questo. Da un lato una crescita insufficiente, dall’altro un eccesso nella redistribuzione delle risorse prodotte. Con le dovute eccezioni: guadagnare poco, guadagnare tutti. Quando il problema a monte di tutto ciò, era soprattutto quello di allargare la base produttiva del Paese. E non fare a gara come, diceva Deng Xiaoping, il padre dello sviluppo economico cinese, nell’amministrare la miseria. E che poi non ci volesse molto per cambiare registro, è dimostrato da quello che è successo in questi giorni: con la riunione del G20. Le nuove élite che, in un battibaleno, sono state in grado di mutare, nell’immaginario internazionale, il sentiment nei confronti dell’Italia.

Nodi che, alla fine, sono venuti al pettine e che nei prossimi mesi condizioneranno le scelte di un Parlamento smarrito, incapace di esprimere a causa della crescente disaffezione dei suoi stakeholder, gli elettori, una qualsiasi linea di azione condivisa. Bisogna dare atto a Sergio Mattarella di aver compreso esattamente la situazione. Nel suo rifiuto ad accettare una nuova candidatura non c’è solo il rispetto di un dettato costituzionale, seppure non scritto sulle tavole della legge. C’è soprattutto la consapevolezza che il Paese ha bisogno di altro, nella speranza di recuperare il tempo perduto. Con tutti i rischi che questa scelta può comportare.

A questo mira l’eventuale candidatura di Mario Draghi. Giancarlo Giorgetti, nell’intervista concessa a Bruno Vespa, ha colto con lucidità il senso più profondo di questa eventualità. Il passaggio verso una sorta di Repubblica semipresidenziale, in cui il Capo dello stato può, dall’alto del Colle, dirigere l’azione di governo in modo più penetrante. È bastato questo accenno per scatenare giuristi, costituzionalisti di vario rito, maître à penser, intellettuali più o meno organici, pronti a stracciarsi le vesti in difesa di un’ortodossia che non ha più riscontri nella realtà effettiva del Paese. Lo ricordava Paolo Mieli, citando l’esempio di chi, da Sandro Pertini in poi ha visto progressivamente dilatarsi lo spazio “politico” e non solo di “garanzia” a disposizione del Presidente della Repubblica.

Per quanto ci riguarda non abbiamo mai considerato quella italiana “la Costituzione più bella del mondo”. Per il semplice fatto ch’essa è solo la più vecchia tra quelle degli altri Paesi occidentali, a noi più vicini. Escludiamo per ovvie ragioni l’esperienza anglo-sassone. Gli USA sono lontani e in Gran Bretagna, il Paese della “common law”, non esiste nemmeno una costituzione codificata, ma un insieme di regole giuridiche sublimate dall’esperienza. In Francia, la nuova costituzione è stata varata nel 1958, in Spagna nel 1978, in Portogallo nel 1976. A contendere il primato di longevità resta solo quella tedesca, approvata un anno dopo (1949) rispetto a quella italiana. Solo che quella tedesca non è una Verfassung (costituzione, in tedesco) ma solo una Grundgesetz (legge fondamentale). Sono infatti solo i diversi Lander ad avere, ciascuno, una propria costituzione.

Negli anni il modello tedesco ha esercitato, in Italia, un grande fascino. La presenza di due grandi partiti, in grado di garantire, al tempo stesso, l’alternanza o la Große Koalition. Un sistema elettorale di tipo proporzionale, con sbarramento al 5 per cento. L’istituto della sfiducia costruttiva: più una minaccia che non una pratica effettiva. Due soltanto le sfiducie proposte, di cui una sola esercitata, con successo, nel 1982 quando Helmut Kohl succedette a Helmut Schmidt nella cancelleria federale. Per il resto soprattutto la suggestione di un federalismo: in Italia poco meditato. Se non altro perché quello tedesco costituisce il caso di “una regionalizzazione senza regionalismi”. I confini storici dei vari Lander furono infatti sconvolti dalle due guerre mondiali e ricostituiti, in modo pragmatico, sulla base delle particolari esigenze gestionali, legate allo sviluppo o all’amministrazione.

Genesi, in Italia, del tutto trascurata. L’idea era rimasta quella di copiare, in qualche modo, quel modello di legislazione, senza per altro avere gli strumenti di controllo, il “Bundesrat”, capace di incidere direttamente sulla produzione legislativa, qualora essa avesse limitato, oltre il dovuto, l’autonomia dei singoli Lander. Da qui il suo scarso appeal. Quel non essere né carne né pesce, che poi è il Titolo V dell’attuale Costituzione italiana: la cui paternità è stata da tutti rinnegata, senza per altro dar luogo ad una sua necessaria, quanto indispensabile, riforma. Soprattutto nel ridisegnare i rapporti tra Stato e Regioni: non più all’insegna della difesa degli interessi politici più immediati (il diverso colore delle varie realtà territoriali), ma guardando all’organicità di un disegno capace di modernizzare e non solo di complicare inutilmente la governance del Paese.

A distanza di tanti anni (73) da quel lontano 1 gennaio 1948, che segnò l’entrata in vigore della Costituzione italiana, c’è quindi da chiedersi se quel modello sia ancora in grado di reggere alle grandi sfide del momento. Una quota crescente di elettori è sempre più convinta che, con queste regole, non vale neppure la pena scomodarsi per andare a votare. Una parte della politica, ma anche dell’opinione pubblica italiana, ritiene che, invece, sia giunto il momento di cambiare. Ma non per dar luogo ad una nuova bicamerale, per ripetere esperimenti che, in passato, a partire dal 1983, quasi quarant’anni fa, non hanno dato alcun frutto. Ma per muoversi diversamente. La Quinta Repubblica in Francia, che segnò il passaggio da quella parlamentare a quella semipresidenziale, fu conseguenza della forza intrinseca delle cose. Dell’emergere di contraddizioni non più governabili con i vecchi metodi del passato. Un punto di non ritorno, quale potrebbe essere, per l’Italia, quello prossimo venturo.

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