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Giorgetti

Perché l’Economist su Draghi turba i turbo-draghiani

Considerazioni e curiosità a margine dell’Economist su Draghi che vuole diventare capo dello Stato. I Graffi di Damato.

 

A Silvio Berlusconi, rimastone vittima con quella bocciatura da copertina do 20 anni fa che contribuì, insieme ai soliti magistrati italiani impegnati contro di lui, a rendergli dura la vita in politica, sarà scappata una risata grande quanto la sua villa di Arcore a godersi l’aiuto stavolta del settimanale inglese The Economist. Che lo ha ripagato, forse anche con gli interessi, del danno infertogli dandogli dell’inadatto, inaffidabile e quant’altro alla guida del governo italiano. Ora, facendo gli elogi dell’Italia come “Paese dell’anno” grazie anche a Mario Draghi a Palazzo Chigi, il settimanale inglese ha soccorso Berlusconi come meglio non poteva nella battaglia difficilissima in corso per difendere la sua voglia di Quirinale, chiamiamola così, dalla fortissima concorrenza -nei fatti- proprio di Draghi. Che pure è un carissimo amico, che il Cavaliere si vanta di avere portato a suo tempo alla presidenza della Banca Centrale Europea, con tutto ciò che ne è poi conseguito.

Proprio in difesa della necessaria prosecuzione del governo Draghi almeno sino alle elezioni ordinarie del 2023 Berlusconi è quindi tra i più impegnati contestatori dell’ipotesi del presidente del Consiglio trasferito al Quirinale alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella. Tanto è vero che il suo Giornale di famiglia ha recentemente liquidato come “un capriccio” non dico una candidatura ma un’eventuale disponibilità del presidente del Consiglio a farsi candidare al Quirinale. E Matteo Salvini si è accodato ieri ponendo contro questo scenario “un veto”, come l’ha definito la Repubblica di carta.

Ecco, a quel “capriccio” lamentato dal Giornale si è in qualche modo associato l’Economist concludendo l’articolo di promozione dell’Italia a “Paese dell’anno” con questo passaggio correttamente tradotto da quasi tutti, come vedremo “Draghi vuole essere presidente della Repubblica e potrebbe essere succeduto da un primo ministro meno competente”.

Mentre Berlusconi – ripeto – forse se la rideva pensando al soccorso dei suoi vecchi detrattori, al Foglio fondato da Giuliano Ferrara e diretto da Claudio Cerasa – schierato in prima fila e dal primo momento, se non proprio lanciatore della campagna per l’elezione di Draghi al Quirinale, dove si sta per sette anni contro l’anno o poco più che potrebbe ancora durare questo governo – debbono esserci rimasti malissimo. E hanno cercato di metterci una pezza trasformando nella traduzione il “vuole” in un più pudico, accettabile, comprensivo, addirittura popolare “vorrebbe”. Ah, la forza magica del condizionale nelle pieghe di una feroce lotta politica in corso o in embrione, come preferite.

E Draghi?, mi chiederete. Ne posso immaginare, al momento, solo l’imbarazzo per una festa guastatagli un po’ dall’Economist con la promozione dell’Italia grazie soprattutto a lui che però vuole, assolutamente vuole, andare al Quirinale pur sapendo che sarebbe sostituito al governo da uno meno competente. Al quale, a sua volta, come presidente della Repubblica egli non potrebbe sostituirsi, neppure di notte, per un inconveniente chiamato Costituzione. Che a maggior ragione con lui al Quirinale i partiti, già in sofferenza avendolo provato a Palazzo Chigi, difficilmente si convincerebbero a modificare in senso presidenzialista, o semi-presidenzialista alla francese. Bel guaio nel Paese – non dimentichiamolo – in cui la politica ha l’abitudine di scambiare per potenziali dittatori tutti gli uomini dotati di una certa personalità. Lo dimostra il trattamento riservato a De Gasperi (che Togliatti voleva cacciare “a calci in culo” dal governo), Pella, Scelba, Tambroni, Craxi, Berlusconi e Renzi, in ordine rigorosamente cronologico nella storia della Repubblica.

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