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Giuseppe Conte

Vi presento la nuova veste di Travaglio: avvocato dell’avvocato Conte

Tesi e ardori pro Conte di Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano.

 

Calatosi per un una volta nell’attualità politica dalle contemplazioni filosofiche e culturali impostesi sulla strada ch’egli per ragioni di età definì struggentemente l’ultimo viaggio, Eugenio Scalfari da una parte ha voluto partecipare alla festa della conferma di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica nella caotica situazione prodotta dai partiti, tutti più o meno in cerca del classico autore, e dall’altra ha voluto consolare quanti avrebbero voluto invece l’elezione di Mario Draghi. E pensavano -sottovalutando sia il senso di responsabilità del capo dello Stato uscente sia quello di irresponsabilità di una parte persino della maggioranza ritrovatasi un anno fa attorno allo spirito dell’unità nazionale in condizioni di emergenza- che l’obiettivo fosse a portata di mano per l’enfatica esibizione, da parte di troppo solerti estimatori e forse anche collaboratori, dell’indisponibilità di Mattarella ad una rielezione.

Draghi, mossosi personalmente a favore della conferma del Presidente quando ha visto sovrapporsi un’emergenza istituzionale alle altre che lo avevano già portato a Palazzo Chigi, “può adesso cogliere l’occasione -ha scritto Scalfari- per accrescere comunque la sua presa sulla maggioranza e portare a termine con efficacia i compiti che si è dato”. E non sono certamente “da poco”. “La Repubblica -ha insistito l’ormai decano del giornalismo italiano dopo la scomparsa dell’ultracentenario Sergio Lepri- va certamente guidata ma il governo è altrettanto importante e Draghi è in grado di ricoprirne autorevolmente le responsabilità”.

Che differenza di stile e di contenuto da certo giornalismo militante, diciamo così, al quale -va detto con onestà- anche Scalfari partecipò a lungo negli anni della lontana e cosiddetta prima Repubblica, e in parte anche in quelle successive, sino a quando non sbottò, di fronte all’arrivo dei grillini sulla scena politica, dicendo di preferire a loro il pur tanto da lui combattuto Silvio Berlusconi.

Ora, convinto magari di essere un mezzo erede giovane dello scalfarismo di un tempo e vedendo in Draghi, con il suo dichiarato e preferito “liberalsocialismo”, il fantasma dell’odiato Bettino Craxi, con l’aggravante della presunta appartenenza al potere finanziario internazionale, Marco Travaglio assume le funzioni di pubblico ministero -e di chi sennò ?- nel “processo a Di Maio” annunciato con tanto di titolo sulla prima pagina del suo Fatto Quotidiano. E ciòper ripulire finalmente il MoVimento 5 Stelle, presieduto da Giuseppe Conte, dei “draghiani” che vi si sarebbero infiltrati sotto la guida appunto del ministro degli Esteri. Che, sempre secondo Travaglio, spalleggiato dall’ormai ex o post grillino Alessandro Di Battista, avrebbe avuto la sfrontatezza di contestare pubblicamente lo stesso Conte per la gestione della corsa al Quirinale.

Questa corsa si è chiusa sì con la “sconfitta” di chi voleva l’elezione di Draghi, ma anche con quella conferma di Mattarella a lungo rappresentata sul Fatto Quotidiano come un’altra sciagura opportunamente avvertita dallo stesso presidente uscente della Repubblica. Di cui pertanto il giornale di Travaglio ha condiviso per mesi tutte le esternazioni, dirette o indirette, o tutti i sospiri contro una rielezione, sino a esortarlo ad un certo punto a insultare in stretto dialetto siciliano quanti invece si ostinavano a sperare in un suo ripensamento. O soltanto si sforzavano di cogliere, fra le varie sortite, sempre dirette e indirette, di Mattarella qualche parola, qualche aggettivo, qualche pausa che potesse fare apparire meno drastico il rifiuto di restare al Quirinale, o meno attendibile l’esibizione degli scatoloni d’imballaggio per il trasloco.

Si potrebbe ripetere col mitico Humphrey Bogart che “è la stampa, bellezza”, con la sua libertà e la sua potenza, o pretesa -ai giorni nostri, e nel nostro Paese- di influire sugli sviluppi della situazione politica sostituendosi ai partiti rinunciatari o sostenendo sino all’esasperazione le loro schegge più massimaliste. Ma anche in questa avventura, chiamiamola così, dovrebbe essere avvertita la necessità di un limite, oltre il quale non è più stampa, e soprattutto non è più bellezza. Diventa un’altra cosa, un surrogato della politica che, diversamente dalla stessa politica comunque sottoposta alle elezioni, non risponde di niente a nessuno.

Rispondiamo ai nostri lettori, diceva orgogliosamente Indro Montanelli, già prima che io avessi avuto il piacere e l’onore di lavorare con lui, come poi capitò anche a Travaglio che però è riuscito a diventarne il biografo ed erede almeno più visibile e ostentato. Ma persino Montanelli, che era appunto Montanelli, con frotte autentiche di lettori e con le fila degli acquirenti dei suoi libri, dovette provare il risvolto impietoso di quell’orgogliosa rivendicazione, in tempi peraltro in cui l’informazione cosiddetta alternativa ed elettronica non era ancora quella così invasiva di oggi.

Il “nostro” Giornale, fondato nel 1974 grazie anche ai finanziamenti procuratici dall’allora segretario della Dc Amintore Fanfani attraverso regolari contratti -per carità- pubblicitari, dovette cercarsi ad un certo punto un altro editore, che fu Berlusconi. E quando Montanelli ruppe con lui e fondò un altro giornale tutto per conto suo, dovette chiuderlo abbastanza presto. Era, ripeto, Montanelli, davvero allergico, non a parole, ai giochi della politica, senza tuttavia aspirare a sostituirvisi: tanto allergico da rifiutare la nomina a senatore a vita offertagli da quel matto -diceva lui stesso- del presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

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