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Tunisia

Tutti i grillismi nel manifesto di Goffredo Bettini

Gianfranco Polillo ha letto il manifesto scritto dal democrat filo Conte, Goffredo Bettini, in vista del battesimo della sua corrente Pd (pardon, della sua area cultural-politica)

Il cielo della teoria, le eroiche astrazioni, il balletto delle “forme”, per descrivere una realtà, vista ma non penetrata: queste, a volo d’uccello, le prime sensazioni nel leggere il lungo saggio di Goffredo Bettini. Il manifesto delle Agorà. Il battesimo di una nuova corrente, che tale – secondo i propositi degli animatori l’iniziativa – non dovrebbe essere. Ma che, alla fine, inevitabilmente sarà. Ancora una volta Enrico Letta dovrebbe “stare sereno”, in attesa del decorso degli eventi.

La grande affabulazione è il contesto all’interno della quale si snoda il discorso più propriamente politico degli animatori. Che è poi quello tradizionale: la grande alleanza che va da Carlo Calenda a Leu, passando ovviamente per i 5 stelle. Ma che non contempla Matteo Renzi: l’arcinemico. Quello che ha buttato giù Giuseppe Conte. Vittima di un vero e proprio golpe. “Conte – si dice nel manifesto – non è caduto per i suoi errori o ritardi (che in parte ci sono stati) ma per una convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli e dunque, per loro, inaffidabile”. Ergo: Renzi è stato l’artefice principale di questa macchinazione.

C’è un filo rosso che percorre tutto il documento? A volerlo cercare, il riferimento principe è la riaffermazione di un metodo che sembra fin troppo simile ai principi della vecchia filosofia della prassi di ispirazione gramsciana. Il linguaggio si è ovviamente evoluto, ma i concetti di fondo sono gli stessi. A partire dalla distinzione tra un riformismo, per così dire, “povero”. E quello, “vero”, che punta – auguri! – a riformare il capitalismo. Non si capisce se nella versione domestica o in quella globalizzata. Nel qual caso ci vorrebbe ben altro che la “santa alleanza” tra le varie famiglie della sinistra italiana.

Pur con questi eccessi, alcune affermazioni del manifesto sono condivisibili. A partire dalla rimeditazione del rapporto, che deve intercorre tra i due principi di “libertà” e di “uguaglianza”. Novità, per la verità, tutt’altro che sconvolgente, considerato che fu alla base della barriera che, storicamente, ha distinto socialisti e comunisti. I primi consapevoli del fatto che i principi di libertà non erano negoziabili. I secondi disposti, invece, a transigere in nome di quell’uguaglianza, più apparente che reale, che avrebbe portato al trionfo dei sistemi totalitari, nella patria del socialismo realizzato.

Comunque, sempre meglio di niente. Tanto più che, dopo anni ed anni, ai socialisti italiani sono almeno riconosciuti gli onori delle armi, nella speranza (più che nella proposta) che il nuovo soggetto politico – “il partito -campo” come viene definito – ridia loro “il ruolo che meritano…. Per la loro storia antica e per il loro presente. Nella consapevolezza che il pensiero socialista nel passato ha avuto molte ragioni alle quali, per diversi motivi, non hanno corrisposto adeguati consensi.” Chissà come mai: verrebbe da dire.

Una garanzia sufficiente? Alcune sviste (almeno per noi) alimentano più di un dubbio. Ad un certo punto del documento si afferma: “Il capitalismo cresce soprattutto dove non c’è democrazia”. Non sappiamo da cosa gli autori del manifesto abbiano tratto questa convinzione. Forse guardando alla Cina, che tuttavia è un sistema atipico, non riconducibile alle categorie storiche su cui si è fondato quel modello. Le cui forme prevalenti sono, invece, quella anglo-sassone, renana, colbertiana o socialdemocratica. Ne deriva, pertanto, l’esatto contrario. Il capitalismo è una struttura talmente flessibile che può convivere tanto nei regimi democratici, quanto in quelli autoritari. Al popolo la responsabilità di evitare possibili degenerazioni.

Cosa che i socialisti italiani avevano capito da tempo, evitando le rincorse rovinose verso la patria del “socialismo reale”. Ma, al tempo stesso, cercando di imbrigliare gli “animal spirits” in una cornice di programmazione, in grado di interagire con le forze spontanee della società, per convogliarle verso un destino condiviso. E se ancora oggi alcune riforme del passato hanno contribuito a rendere più umano il volto di questo Paese, non lo si deve certo a chi di giorno predicava la rivoluzione e di notte si accordava per spartirsi le spoglie di un modello consociativo.

Pezzi di storia patria che vanno tenuti a mente, nel momento in cui si fa riferimento alla tensione “del socialismo e del cristianesimo” per “cambiare la condizione umana e le istituzioni in vista di un riscatto e di una salvezza nel rispetto dei tempi”. Strano accostamento: quello appena indicato. Fin troppo generico per fornire una chiave in grado di far comprendere l’esatta direzione cui tendere. C’è solo da aggiungere che, nel documento, non ricorre nemmeno una volta il riferimento ai cattolici o al cattolicesimo. Riferimento annullato nel termine più generico di cristiano e cristianesimo. Sufficiente, per indicare una specificità? Non sembrerebbe, stando almeno al celebre saggio di Benedetto Croce: ”Perché non possiamo non dirci cristiani”.

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