Caro Michele Arnese, leggo sulla testata che dirigi, Start Magazine, della radiosa evoluzione del giornalismo in appendice sponsorizzata, brand journalism, che suona meglio di giornalismo marchiato che a sua volta suona meglio di giornalismo marchettizzato.
Leggo scuotendo la testa, tristemente, ma senza costernarmi: del progressivo lasciarsi fagocitare dell’informazione ad opera della pubblicità scriveva già Giorgio Bocca a fine anni Ottanta, dapprima col “Padrone in redazione”, quindi con una inesausta raffica di articoli nei successivi vent’anni e, letteralmente, fino alla morte; siamo a metà degli anni Venti… La cosa, per dirla con Pasolini, mi ha più che scandalizzato: mi ha quasi spaventato, ma neanche poi tanto: nel mio piccolo, mi sono accorto, e lo scrivo anche io con patetica ostinazione, della implosione da giornalismo a sponsorizzazione a comunicazione così come imposto dalla dea Finanza che ha assorbito, comperandolo, l’impossibile, trasformando il “capitalismo delle cose” nel post capitalismo dei miraggi e delle menzogne: per testare le quali, si ingaggiano volonterosi in fama di fact checker. L’ultima fermata è quella di Dorsey di Twitter (poi rilevata da Musk), che si vantava di aver fatto sparire 600 milioni di messaggi critici su vaccini e misure di controllo, dello Zuckerberg che rivendicava in alone di leggenda la sistematica, analoga opera di censura di concerto con l’amministrazione Biden-Harris. A me questa kermesse suggerisce la morale del fatto compiuto: non potendo più negare che i giornali, che l’informazione è al 95% sostituita dalla propaganda, dalle false interviste, dai redazionali non specificati, che ci resta se non uscire allo scoperto, vantarcene con tutta la passerella del caso e magari fare in modo di cavarne qualche ulteriore buon affare?
I festival, da Sanremo in su, servono precisamente a questo: a coprire l’ipocrisia, o la vergogna. Ha ragione l’autore del pezzo, Francis Walsingham: noialtri siamo tutta gente del secolo scorso, rimasta al palo della (post) modernità che virtuosa di per sé; non ci orientiamo nei nuovi frasari e nella nuova morale ed è per questo che hanno inventato per noi un nuovo dio, quello dell’Intelligenza Artificiale: ci divorerà, come il Moloc, dandoci l’illusione di assisterci: amen, come concludeva Mino Pecorelli, giornalista allusivo, piduista, spione, ma a suo modo eccellente (altro che certi epigoni flessibili, snodabili, da noi ben conosciuti, che senza pericolo velano i loro pizzini dietro una coltre di pornogossip, e i media di regime se li contendono). Ho colto una coincidenza curiosa: praticamente tutti festivalieri della situazione provengono da fonti progressive, progressiste, insomma allineate alla Narrazione, conosciuta pure come Agenda; non a caso, la radiosa iniziativa aveva, mi pare, l’Alto Patrocinio della Ue. Alto. Insomma. La Narrazione, che, come insegna Klaus Schwaab del WEF, “è l’unica verità che esiste, ed è la nostra”.
Siamo alla sublimazione di quanto preteso a livello di sistema, per dire che siamo alla messa in pratica, al fatto compiuto, come si diceva, ben oltre lo stadio della teorizzazione: se un vecchio illuso del mestiere si impunta ancora a farlo, senza capire che è sparito, per esempio raccontando cosa succede ad uno sportello, in una carrozza del treno, in un quartiere di una metropoli “modello”, insomma dovunque, è garantito che la sacra azienda, sia pubblica che privata, ma è la stessa cosa, più che incazzarsi si costerna, pretende di riscrivere lei il pezzo, affidandolo a qualche galoppino, anche se è più gentile chiamarlo brand journalist. Che nostalgia del gonzo journalism. Ma va così: queste industrie, qualunque sia la dimensione, la gestione, dipendono dalla politica la quale agisce in due modi: o taglia la pubblicità redazionale, esattamente il brand con cui, sponsorizzandola condiziona ogni testata, oppure chiude i rubinetti dei finanziamenti pubblici, che sono pur sempre pubblicità, seppure indiretta. Non si scappa, o meglio ci scappa la testa del povero giornalista in funzione di Battista.
Scopro infine che AdnKronos scomoda un vicedirettore per rispondervi, e riproduco fedelmente: “investire energie e risorse sulla qualità di quello che si fa quotidianamente è l’unica strada per salvare il giornalismo e rilanciarne la funzione, essenziale, in un contesto in cui l’informazione è quotidianamente alimentata da fonti non giornalistiche; servono regole di ingaggio chiare e un confronto con il mondo dell’impresa che abbia il coraggio di rispettare posizioni diverse; l’approccio giornalistico non esiste se non c’è una verifica delle fonti e l’intermediazione di una testata che ha la responsabilità di quello che scrive o dice.”. Tarapia tapioco: blinda la supercazzola o scherziamo? Ma il senso mi pare si possa condensare come segue: così fan tutti.
Caro direttore, io sono appena un po’ più vecchio di te, più novecentesco di te. Ti scrivo semplicemente per condividere quella sorta di spleen che ci insegnavano al liceo classico del latinorum, e che oggi, dice qualche brand manager, è a sua volta superato, patetico, infruttifero.
Ad minora, tuo
Max Del Papa