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Merkel Conte Italia Germania

L’Italia imita la Germania nelle misure anti Covid? Fatti, confronti e contraddizioni

L’Italia che stringe le maglie dei contatti nei giorni delle feste lo fa non in nome di una responsabilità propria, ma in quello di Angela Merkel. Che, se fosse per lei, il 7 gennaio non riaprirebbe di sicuro le scuole. L'analisi di Pierluigi Mennitti da Berlino

 

Nella sbandierata sintonia ritrovata tra Italia e Germania pare giocare un ruolo di primo piano il cosiddetto modello Merkel di gestione della pandemia. Buffo che Roma l’abbia scoperto proprio nel momento in cui ha mostrato le crepe. Scambiando l’accorato appello della cancelliera al Bundestag, un paio di settimane fa, per un segnale di forza – appello nel quale Merkel, pur utilizzando un registro emotivo inconsueto, non ha naturalmente versato neppure una delle lacrime raccontate dai giornali italiani e finite in un melodrammatico editoriale de La Stampa – il governo italiano s’è impaurito dei propri alleggerimenti annunciati per il periodo natalizio e si è trincerato dietro la sagoma della cancelliera per fare la sua marcia indietro.

Peccato che in Germania la stretta natalizia (che ufficialmente si concluderà il 10 gennaio, ma che il ministro dell’Economia Peter Altmaier ha già detto che verrà molto probabilmente prolungata) sia stata, a un tempo, una necessità per provare a riportare in carreggiata la vettura e una dichiarazione di fallimento.

Il cosiddetto metodo Merkel, che naturalmente in Germania nessuno chiama così, è stato infatti efficace e vincente per contenere la prima ondata di primavera: un po’ di fortuna nell’individuare presto il virus prima che si diffondesse troppo in profondità nella società, grande capacità della medicina territoriale che ha permesso di non affollare gli ospedali, ancora un po’ di fortuna per il fatto che a infettarsi siano stati soprattutto i giovani che affollavano le stazioni sciistiche alpine. Su di loro il virus non ha avuto effetti devastanti. E poi l’intervento abbastanza tempestivo del lockdown, con scuole e asili ridotti alla sola assistenza dei figli di genitori impegnati in settori strategici, negozi chiusi, fabbriche a scartamento ridotto. Un lockdown vero, mentre i cittadini venivano invitati a restare a casa, limitando il più possibile i contatti personali. A differenza dell’Italia si poteva uscire, per correre o passeggiare, senza il rischio di essere insultati come untori. E così il contagio è stato contenuto, tanto da registrare un numero molto basso di decessi.

Ma in quella fase, nessuno in Italia ha pensato di adottare il cosiddetto metodo Merkel. Anzi, la tesi che andava per la maggiore, dal vago sentore complottista, era che da qualche parte, in Germania, si nascondessero i morti. O si barasse sui conteggi, calcolando i morti “per” e non i morti “con”, come invece facevano gli sprovveduti italiani. A spazzare i sospetti non servirono neppure le smentite ripetute dei responsabili del Koch Institut, gli esperti che gestiscono l’emergenza sanitaria.

Ma nella seconda ondata, quella che chissà per quale motivo in Italia è stata presa a modello, la cancelliera ha mostrato fin dall’inizio segni di stanchezza. La scelta della strategia del “lockdown light” (scuole e asili aperti, così come i negozi al dettaglio e la gran parte delle attività economiche) è stata una decisione di compromesso fra la volontà del governo centrale di misure più radicali e le resistenze dei presidenti regionali (o della maggior parte di essi). Ha prodotto l’unico risultato positivo nelle prime settimane, fermando la crescita esponenziale dei contagi, ma nulla di più: dopo un periodo di stasi su numeri comunque alti, la curva ha ripreso a salire obbligando il comitato governo-regioni che gestisce la gestione politica della pandemia a tornare sui propri passi.

Certo, rispetto alla gran parte dei suoi corrispettivi regionali (ma anche a tanti cittadini logorati psicologicamente dalla lunga pandemia e sempre più indisciplinati), Angela Merkel ha meno colpe per il fallimento di questa strategia leggera. Avrebbe voluto da subito misure più dure, aveva valutato più correttamente di altri la gravità della situazione grazie anche alla sua competenza scientifica, ma non è riuscita né a convincere i interlocutori (presidenti regionali e cittadini) né a usare la sua autorità e i poteri che il ruolo le assegna. Ci è voluto un mese e mezzo perché avvenisse, un mese e mezzo in cui è evaporato il mito tedesco.

Il risultato è che oggi si contano decine di migliaia di infezioni e migliaia di morti: le terapie intensive sono sotto stress, il personale sanitario è allo stremo, in alcuni Länder orientali si è vicini al collasso, il virus miete vittime nelle Rsa attorno alle quali non si è riusciti a creare un cordone di sicurezza. È una situazione che la Germania non aveva conosciuto in primavera.

A differenza del “lockdown light” tedesco, addirittura il bizzarro sistema a colori delle misure italiane (regioni gialle, arancioni, rosse) è sembrato funzionare meglio. Tanto che, pochi giorni prima che l’Italia si votasse a un immaginario modello Merkel, il quotidiano Handelsblatt si chiedeva se non fosse il caso in Germania di adottare misure come quelle italiane, che sembravano funzionare meglio.

Questione di cortocircuiti, nei quali ognuno si racconta le storie come meglio crede (o conviene), piuttosto che come sono. Così l’Italia che stringe le maglie dei contatti nei giorni delle feste lo fa non in nome di una responsabilità propria, ma in quello di Angela Merkel. Che, se fosse per lei, il 7 gennaio non riaprirebbe di sicuro le scuole.

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