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L’Italia esce dalla Via della Seta. Brava Meloni

La Via della Seta? Non poteva rappresentare una scelta lungimirante quella di schierarsi dalla parte di uno Stato totalitario nel momento in cui le democrazie globali si compattano per far fronte alla minaccia di autocrazie come la Cina e la Russia. Il corsivo di Marco Orioles

“Addio a Pechino”, è il titolo scelto da La Stampa, che come tutti i giornali italiani – e non solo italiani – pone oggi in grande risalto la decisione del governo Meloni di rinnegare il Memorandum sulla Via della Seta.

La mossa era nell’aria da tempo e, si può dire, rappresenta il naturale compimento della volontà dell’esecutivo di centrodestra di porre rimedio alla sbandata cinese del governo Conte 1, che il 23 marzo 2019 volle firmare quel documento nella cornice solenne di Villa Madama alla presenza del presidente della Repubblica Mattarella e di quello cinese Xi Jinping.

Con quell’atto formale e impegnativo, l’Italia compì lo strappo clamoroso di diventare l’unico Paese del G7 ad aderire al progetto bandiera lanciato dieci anni fa da Xi con più intenti, tutti funzionali a suggellare l’ascesa del Dragone e la sua non più ignorabile influenza a livello internazionale.

Saltando sul carro di Pechino alla ricerca di improbabili ritorni economici che alla prova dei fatti si sono rivelati illusori, la Roma egemonizzata dal M5S segnalava al mondo come i suoi interessi non coincidessero più con l’appartenenza al blocco occidentale e richiedessero da parte nostra un giro di valzer col Partito comunista cinese e la sua agenda espansionista.

L’Italia fece quell’errore consapevolmente, scegliendo di ignorare i ripetuti moniti di Washington che ci mise in allarme sulle vere mire di Pechino. Il momento poi non poteva essere più sbagliato: alla Casa Bianca abitata allora da Donald Trump avevano avviato una durissima resa dei conti con un regime accusato di approfittare dei nostri assetti di libero mercato non tanto per arricchire le sue aziende pubbliche bensì per conquistare posizioni di dominio e armarsi sino ai denti.

Non a caso l’adesione italiana alla Belt and Road provocò parecchi malumori anche in seno al governo gialloverde, dove la Lega di Salvini e soprattutto del filo-americano Giancarlo Giorgetti si fece interprete dei dubbi di Washington, non riuscendo tuttavia ad evitare l’esito finale.

Adesso che i grillini rappresentano solo una rumorosa benché robusta opposizione, e al governo ci sono forze politiche che professano fede atlantista, l’Italia può ben compiere un passo che coincide con i nostri interessi più di quanto l’abbia fatto l’adesione a un accordo che già in campagna elettorale Giorgia Meloni definì “un grande errore” peraltro privo di una reale contropartita.

Come insistentemente ricordato dal vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, malgrado le promesse di inondare il mercato cinese con le arance siciliane, il nostro export verso la Cina non è aumentato in modo sensibile al contrario dell’import che è letteralmente esploso. Il tutto mentre l’export in Cina di Paesi che non hanno firmato alcun memorandum come Francia e Germania aumentava sensibilmente facendo impallidire quello italiano.

Vano si è rivelato anche l’impegno a effettuare nel nostro Paese ingenti investimenti infrastrutturali nella speranza di fare dei porti di Trieste e Venezia degli importanti scali logistici e la porta di accesso all’Europa di quelle merci cinesi che invece continuano ad approdare in gran quantità nei porti del Pireo e del Nord del Vecchio Continente.

D’altra parte gli aspetti economici di quell’accordo sono sempre stati secondari rispetto ai risvolti politici. Ciò che più interessava e interessa tuttora a Pechino era conquistare una testa di ponte in Occidente, indebolire l’asse transatlantico e guadagnare un partner che potesse far valere la voce della Cina nei consessi internazionali.

Rimediare a quell’errore era dunque indispensabile, rimettendo l’Italia sui binari di una equilibrata competizione col colosso cinese nel contesto di un nuovo bipolarismo globale in cui Roma non può che sedersi al tavolo del suo storico alleato americano.

E poi, francamente, non poteva rappresentare una scelta lungimirante quella di schierarsi dalla parte di uno Stato totalitario nel momento in cui le democrazie globali sono chiamate a compattarsi per far fronte alla formidabile minaccia di autocrazie come la Cina e la Russia che coltivano apertamente il sogno di smantellare l’ordine liberale per rifare il mondo a propria immagine e somiglianza.

Ci sono voluti quattro anni e mezzo per porre fine a questo equivoco. Ora il governo italiano deve adoperarsi per convincere Pechino a non abbandonarsi alla tentazione di ritorsioni contro di noi colpendo ad esempio il comparto del lusso. Tale è la missione affidata al presidente Mattarella la cui visita in Cina è programmata per il prossimo anno.

Proprio a colui che nel marzo 2019 fu tirato per la giacchetta per convincerlo a porre il cappello quirinalizio su quel funesto accordo spetta il compito di spiegare ai cinesi che l’amicizia con l’Italia non può andare a scapito dei nostri valori.

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