Quando in una classe ci sono bambini e bambine di ogni parte del mondo si avverte quanto grande e importante, forse decisivo, potrebbe essere il significato di quella presenza per il futuro dell’umanità.
Dopo la famiglia, la scuola è il luogo della prima socializzazione, cioè dell’apertura di credito alle relazioni interpersonali, ma anche della formazione dell’intelligenza e del carattere e della trasmissione di quei valori di civiltà che possono dare un senso alla nostra vita.
C’è una ricchezza straordinaria insita in quel potenziale umano: di menti e di cuori pronti a ricevere buoni insegnamenti, di creature che stanno crescendo e alle quali si può indicare – con l’autorevolezza istituzionale e morale che è implicita nel compito degli educatori – la via del bene affinché possano trovare poi da sé quella della verità.
Sono bambini e bambine che non sanno ancora nulla delle cattiverie e delle malizie del mondo e che non attribuiscono certamente alle culture di provenienza, alle diverse etnie, alle confessioni religiose o al colore della pelle quei significati distintivi e selettivi, a volte di retaggio, che gli adulti solitamente usano quando si rapportano tra di loro.
Il compito più straordinario che attende ogni educatore è quello di formare menti aperte, critiche e libere e questo processo si realizza in modo naturale in un contesto multiculturale.
La scuola accoglie tutti e in questa apertura consiste il senso più importante e significativo del suo essere luogo di educazione.
Anche da un punto di vista strettamente didattico il melting pot linguistico accelera e favorisce la comprensione e la comunicazione tra persone.
È infatti risaputo che l’uso e l’arricchimento delle lingue non avviene solo attraverso l’acquisizione di regole sintattiche e grammaticali ma per ‘immersione’, per ‘osmosi’, addirittura per ‘promiscuità, entrando cioè in diretto contatto con l’ambiente culturale e di vita di cui si dovrebbero mutuare gli apprendimenti.
La metabolizzazione dei contenuti linguistici avviene quindi più facilmente in un contesto comunicativo aperto e fluente piuttosto che in uno chiuso e separato: nel primo caso gli apprendimenti si realizzano partecipando in forma ‘viva’ e diretta alla socializzazione verbale, nel secondo solo mandando a mente aride nozioni che richiedono di essere poi declinate nell’uso della parola.
Le relazioni interpersonali sono uno straordinario agente di facilitazione rispetto alle competenze linguistiche, più di quanto avvenga attraverso la mera trasmissione di nozioni e regole in contesti formativi separati: non esiste un luogo dove si apprende che sia distinto nettamente da quello dove si vive, perché entrambi coesistono nell’atto didattico, si insegna e si impara mentre si vive in mezzo agli altri.
Le più consolidate acquisizioni della ricerca pedagogia, hanno dimostrato che c’è una fase di competenza linguistica che precede l’apprendimento espressivo in senso stretto: si può infatti affermare ad esempio che nello studio di un idioma straniero, si ‘pensa bilingue’ prima ancora di ‘parlare bilingue’.
Credo pertanto di poter convintamente sostenere che un ritorno a classi “differenziate”, questa volta per matrice linguistica di provenienza, sarebbe un passo indietro rispetto alle evidenze culturali e didattiche che le scelte di integrazione e di inclusione hanno realizzato, sia sul piano dei valori educativi e di civiltà sia sotto il profilo della pragmatica utilità di possedere in tempi brevi e nel modo più facilitato e spontaneo le chiavi che aprono ai saperi e alle competenze espressive e che ci permettono di capire e di comunicare.