«Il punto più debole della formulazione classica della teoria del potere aereo è che il morale dei civili sia più fragile di quello dei militari, come se ci fosse una differenza antropologica tra cittadini in divisa e non.» Questa frase, che tutti i miei allievi in Accademia Aeronautica hanno sentito a lezione, mi è tornata in mente nel leggere in rete gli estratti de Il mondo al contrario, il libro autopubblicato nel quale il generale di divisione Roberto Vannacci esprime il proprio disagio nei confronti della società contemporanea. Sì, perché è proprio quella presunta differenza antropologica che traspare nei brani che hanno suscitato scalpore.
Nel 1998 un altro comandante della Folgore si espose alla pubblica ironia con uno “zibaldone” di concetti di varia estrazione e spessore distribuito a tutti gli enti della Brigata Paracadutisti. Ciò che lascia perplessi è proprio come – nonostante l’introduzione di lauree e master di vario livello – la cultura militare diffusa sia ancora esposta alle sirene della semplificazione brutale, della nostalgia non solo della propria gioventù, della cultura come debolezza (“Quando sento la parola cultura, estraggo la mia Browning”, secondo la celebre frase attribuita a Hermann Göering).
Che sia chiaro: non mi si può accusare di pregiudizi nei confronti delle forze armate e del mondo della Difesa. Anzi, quando in pieno Covid la defunta Michela Murgia si disse spaventata della mimetica del generale Figliuolo, mandato a raddrizzare una situazione che le strutture sanitarie civili non governavano, pensai (e forse scrissi) che la sua critica sarebbe stata meglio indirizzata altrove.
Altrettanto chiaro è che, in quanto cittadino, Vannacci ha pieno diritto di esprimere le proprie opinioni sui temi non inerenti il servizio. Il militare che volesse recensire un film (non fa differenza se Barbie o Indiana Jones) non dovrebbe chiedere alcuna autorizzazione, così come se volesse scrivere romanzi gialli o financo rosa. Proprio per questo, tutti gli altri cittadini – compresi i giornalisti – hanno però il diritto di dire cosa pensano del suo lavoro.
Il primo punto è che 373 pagine sono talmente tante che anche chi scrive di mestiere farebbe fatica a esprimersi costantemente a un certo livello (questo articolo è lungo meno di tre, per capirci). Il secondo è lo stile: la lagnanza di Vannacci è lontana dall’invettiva di Oriana Fallaci (anch’essa criticabile, e infatti criticata), dallo snobismo di Umberto Eco (la famosa immagine dei matti del bar ai quali internet ha dato un palco globale) e persino dalle sconsolate riflessioni di Robert Hughes su La cultura del piagnisteo (Adelphi, 2003) e Tom Nichols La conoscenza e i suoi nemici (Luiss University Press, 2023).
Il terzo punto è una domanda sull’autopubblicazione su Amazon: il libro è stato rifiutato da editori tradizionali o non è stato loro proposto? Scrivere non è un atto solitario, non fosse altro per il desiderio che il proprio pensiero sia letto da altri. Persino il tormentone della lettera d’addio di Massimo Segre a Cristina Seymandi postulava l’esistenza di un pubblico che ne traesse conclusioni sull’inevitabilità della rottura. Passare per un editore – così come per un relatore scrupoloso o un professore attento – significa anche confrontarsi, accettare critiche, suggerimenti e modifiche. (Io in questo momento non so se e come Michele Arnese interverrà su questo articolo). Attenzione: parliamo di lettori professionisti, di formazione e cultura diversa dalla nostra, non di persone care che sono portate ad assecondarci. Misurarsi con il loro parere non è facile per nessuno, ma proprio per questo è utile. Sbaglierò, ma credo che Il mondo al contrario abbia avuto una sorta di peer review al contrario: una bolla in cui tutti condividono la stessa opinione, con più pacche sulle spalle che critiche oneste.
Questo è il punto cruciale. Come si può coerentemente esibire un curriculum in cui si è combattuto (chiamiamo le cose con il loro nome) in Afghanistan in nome dei diritti individuali, e poi rifiutarli a casa propria? Come si può giurare fedeltà alla Costituzione e poi non riconoscersi nei suoi valori? Perché i tanti valori etici positivi del mondo militare (lealtà, onore, fedeltà, sincerità, coraggio …) devono essere vissuti, e quindi presentati, come contrari a quelli della società che difendono e proteggono?
In realtà, non devono. Lo spiega bene il film Codice d’onore, quando il caporale Dawson ammette che il suo dovere di militare sarebbe stato quello di proteggere il commilitone anziché di punirlo come debole.
Sfogare i propri umori senza filtro giustifica i pregiudizi alla Murgia. Danneggia insomma i tantissimi militari scrupolosi, equilibrati, attenti che hanno contribuito a far apprezzare l’Italia negli scenari crisi degli ultimi trent’anni. Un danno che il procedimento disciplinare annunciato dal ministro della Difesa Guido Crosetto potrà trasferire sulla carriera di chi lo ha prodotto (anche se, visto il curriculum, il comando dell’Istituto Geografico Militare sembra indicare uno stop già avvenuto) ma non riparare agli occhi dell’opinione pubblica. E questo sarà difficile da perdonare.