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Libertà

Libertà, uguaglianza, fraternità. Ripensare le democrazie dopo la pandemia

L'analisi di Marco Ferrazzoli, giornalista e saggista

Libertà e salute, libertà e sicurezza, libertà e responsabilità, libertà e verità… In questo periodo, nel dibattito pubblico, si registra un ritorno della parola “libertà” che ci riporta indietro di qualche decennio, a quella seconda metà del ‘900 nella quale la rivendicazione di maggiori libertà era un leit motiv politico-culturale globale. Nei paesi oppressi da regimi più autoritari, ovviamente, e quindi nell’est europeo comunista o nel sud America controllato da feroci dittature, nell’amplissima parte di mondo africana e asiatica soggetta al dominio delle potenze coloniali, ma anche in quella che a buon diritto già si considerava “libera”. Negli Stati Uniti i giovani hippy, come li si definiva, si riunivano in cortei, manifestazioni e festose adunate musicali nei cui slogan la parola “freedom” ricorreva con frequenza, assieme a “love and peace”. E inevitabilmente, come sempre avviene dal dopoguerra con quanto di significativo accade in America, il messaggio è stato esportato negli altri cosiddetti paesi avanzati e quindi anche in Europa e in Italia.

La maggiore libertà oggi viene reclamata soprattutto nei confronti di quella che qualcuno chiama persino “dittatura sanitaria” e che, nella realtà, è un democraticissimo regime di tutela della salute pubblica, il quale ha però effettivamente imposto regole di vita impensabili soltanto a fine 2019, prima che la pandemia sconvolgesse le nostre vite. A rivendicarla sono in genere soggetti di appartenenza ideologica e politica molto diversa dai loro predecessori degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso: non più, o non tanto, libertari progressisti di sinistra, ma liberali e anche, secondo la dicitura corrente, populisti e sovranisti di destra. Ricondurre però l’attuale rivendicazione di maggiore libertà allo schema di destra e sinistra, ormai ampiamente superato, non consente di definire il fenomeno con sufficiente precisione.

Prendiamo dunque come riferimento i quattro termini che abbiamo prima enunciato a titolo esemplificativo: salute, sicurezza, responsabilità e verità. La salute viene da più parti affermata come un diritto prioritario e primario, di fronte al quale devono essere subordinati tutti gli altri, libertà inclusa. È una tesi molto fondata, poiché senza un pieno stato di salute non è possibile esercitare altre potestà, ma di difficile applicazione, come vediamo ogni giorno. Intanto, a ritroso, la tesi conduce a porre come fondamentale il diritto alla vita, oggetto come sappiamo di un acceso dibattito. Inoltre, il ruolo dello Stato di garante della salute pubblica non è scontato, solo che si pensi alla diatriba tra sistemi sanitari pubblici e privati, tema su cui insiste spesso anche Papa Bergoglio, oppure ad altri comportamenti legali eppure nocivi, dal consumo di alcol a quello di tabacco e grassi animali.

Anche l’opposizione tra libertà e sicurezza non è pacifica come potrebbe sembrare quando si dice, giustamente, che la sicurezza altrui stabilisce il limite all’esercizio della libertà individuale. Quanto questo tema sia scivoloso ce lo ricordano, per esempio, i casi di “eccesso di legittima difesa” e di abusi da parte delle forze dell’ordine, drammatico negli Usa, in cui la tutela della vita o delle proprietà materiali, proprie o altrui, viene esercitato mediante atti violenti fino all’omicidio contro coloro che tentano di minacciarle.

Estremamente complessa è anche l’alternativa tra libertà e verità. Tutto il dibattito sulla gestione sanitaria della pandemia si inquadra in questa contrapposizione, nella quale la scienza si pone quale portatrice di una verità cui bisogna subordinare la libertà di opinioni e posizioni, che di fronte al dato di realtà oggettivo perdono di significato. Il problema è che la scienza, nel contesto della pandemia, ha potuto affermare la verità in misura ridotta e comunque insufficiente a fornire indirizzi immediatamente risolutivi. La traduzione degli avanzamenti delle nostre conoscenze è avvenuta, da parte delle istituzioni, con decisioni continuamente rivedute e talvolta contraddette, il che non ha contribuito a instaurare nell’opinione pubblica l’indispensabile clima di fiducia tra autorità e cittadinanza. Si potrebbe osservare che l’incertezza è stata più politica che scientifica, relativa cioè alla mediazione tra doveri sanitari e mantenimento del consenso, ma il fatto che la si riscontri ovunque a livello internazionale attesta, oltre all’ovvia difficoltà della questione pandemica, che è mancato un modello efficace di trasferimento dalla conoscenza alla decisione.

L’ultimo termine, la responsabilità, può forse offrire spunto alle valutazioni più interessanti. Il sensatissimo ragionamento che spesso si cerca di proporre al popolo sbrigativamente tradotto nelle definizioni di “negazionisti” e “complottisti” o nelle sigle di “no vax” e “no pass”, e che in realtà include moltissime persone semplicemente incerte, confuse, dubbiose e spaventate, è che le misure di comportamento continuamente raccomandate da circa due anni e il rapporto tra rischi e benefici della vaccinazione non siano opinabili. La considerazione è corretta: i vantaggi immunitari sono maggiori degli effetti avversi, così come il fastidio di distanziamento, igienizzazione e uso della mascherina è inferiore alla sicurezza che ne deriva. Perché, allora, non c’è da parte di tutti una consapevole osservanza e siamo sempre impantanati in un estenuante, polemico dibattito su questi temi? Il vulnus, forse, sta proprio nella mancanza di senso di responsabilità.

Bisogna porre mente a un dato che le analisi storiografiche e delle scienze sociali hanno ben evidenziato: la libertà come valore politico è antica quanto le società umane, ma assume un ruolo di particolare rilievo a partire dalla Rivoluzione francese, quando diventa uno dei tre valori fondanti delle società moderne assieme alla fratellanza e all’uguaglianza. Nelle declinazioni ideologiche e politiche successive, però, questi tre ideali si sono come dispersi in tre percorsi separati e spesso fortemente concorrenti tra di loro. La fratellanza era molto forte nei regimi di carattere nazionalistico ai quali, con molta approssimazione, possiamo ricondurre i fascismi e il nazismo, declinata nel senso identitario della comunità, dell’appartenenza. L’uguaglianza è divenuta il perno sul quale sono incardinati gli stati socialisti e comunisti in cui, almeno in teoria, l’abbattimento delle diseguaglianze ha costituito il motore di grandi rivoluzioni. La libertà ha trovato il proprio terreno elettivo di crescita nelle democrazie.

È chiaro che se si imposta la questione in tal modo le democrazie, fortunatamente sempre più diffuse sul pianeta, tendano in certa misura a subordinare al loro principio fondante gli altri due valori e il sentirsi parte di un’unica comunità nella quale non ci siano divari eccessivi. Se tenessimo presente l’intera triade, invece, terremmo maggiormente presente che non c’è vera libertà senza fraternità e uguaglianza e che, dunque, i nostri comportamenti non possono essere dettati dal diritto individuale ma vanno contestualizzati in un ambito comunitario che necessariamente li condiziona. Questo vuol dire non soltanto accettare disciplinatamente le limitazioni all’espressione del “sé”, ma soprattutto assumersi proattive responsabilità verso il prossimo.

Si tratterebbe, è chiaro, di una rivoluzione che va enormemente oltre la questione vaccinale o pandemica. Però proprio questa straordinaria contingenza, che speriamo termini prima possibile, ci offre un’occasione imperdibile di revisione del nostro modello di vita collettiva. Se la cogliessimo, potremmo cercare di costruire il futuro delle nostre società in una maniera che equilibri meglio tutti i valori che professiamo a parole.

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