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Giorgetti

La lezione di Fini per Meloni

I Graffi di Damato.

 

Quelle mani di Giorgia Meloni a Cernobbio fra i capelli -o sugli occhi, come altri hanno preferito riferirne- per difendersi da un Matteo Salvini poco riguardoso della corsa a Palazzo Chigi dell’alleata mi hanno riportato indietro con la memoria ad una scena apparentemente diversa. Eppure univoca nella incapacità a destra di mimetizzarsi, di fare buon viso a cattivo gioco.

La scena richiamata alla mia memoria è quella dell’ormai lontano 22 aprile del 2010 a Roma, quando in una seduta da auditorium della direzione del Pdl il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sbottò contro Gianfranco Fini. Che da tempo, per niente trattenuto dal ruolo di presidente della Camera, promessogli dallo stesso Berlusconi prima delle elezioni del 2008 e puntualmente assegnatogli, gliela tirava nella maggioranza. E a chi gli raccomandava prudenza per conto del Cavaliere rispondeva paragonandosi ad un combattente che poteva anche saltare per aria ma trascinandosi appresso pure il capo del governo. Ma ciò non avvenne perché, a rottura avvenuta, Berlusconi sopravvisse al tentativo di sfiduciarlo compiuto dagli amici di Fini con una mozione a Montecitorio.

Quando Berlusconi -dicevo- sbottò dicendogli di dimettersi almeno da presidente della Camera se intendeva continuare a tirargliela, Fini dal suo posto cominciò a fare gesti di derisione, sino ad alzarsi, avvicinarsi al palco e chiedergli: “Che fai? Mi cacci?”. E Berlusconi di fatto lo cacciò. Fini rimase al vertice di Montecitorio, dove però non sarebbe più tornato neppure da semplice deputato, inutilmente candidatosi nelle liste improvvisate nel 2013 da Mario Monti.

La Meloni, pur cresciuta alla sua scuola, non è Fini. E nella veste di candidata a Palazzo Chigi per il centrodestra, dove il suo partito sembra in grado di raccogliere più voti della somma di quelli di Berlusconi e Salvini, non si mette a fare scenate in pubblico. Si porta solo le mani fra i capelli o -ripeto- sugli occhi. Ma poi spiega all’alleato insofferente che dalle sanzioni alla Russia per la guerra in Ucraina l’Italia non può tirarsi indietro, come lui vorrebbe, senza perdere credibilità internazionale. Una donna tosta, direi, della quale il capo della Lega dovrà prima o poi tenere conto, anche se il pubblico molto scelto di Cernobbio -come ha notato un cronista scrupoloso- non le ha mai concesso più di dieci secondi di applausi. Molti di più ne hanno invece ottenuti Carlo Calenda ed Enrico Letta, in ordine cronometrico.

Il fatto è che nel mondo delle imprese e della finanza più di una imitazione di Draghi, cui la Meloni sarebbe disponibile pur dopo tanta opposizione, vorrebbero il Draghi vero. Su cui Calenda ha scommesso, insieme con Matteo Renzi, senza con questo infastidire il presidente del Consiglio, almeno sinora. E certamente il segretario del Pd non lo contrasterebbe nel caso in cui fosse possibile confermarlo.

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