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Giorgetti

Che cosa c’è dietro il no di Enrico Letta al trasloco di Mario Draghi al Quirinale

I Graffi di Damato

Anche questa edizione del raduno di Comunione e Liberazione a Rimini ha finito per incrociare le scadenze della politica interna e abbassare al loro livello i temi alti, o addirittura altissimi, proposti almeno formalmente dagli organizzatori. Che d’altronde conoscono benissimo la sorte dei loro appuntamenti, ai quali non a caso chiamano tutti i protagonisti, e pure qualche attore minore o comparsa dello spettacolo di turno della politica italiana. Sono uomini di mondo, diciamo così, anche i ciellini. I quali possono ora vantarsi, fingendo magari di esserne sorpresi, e persino amareggiati, che sia partito dal loro raduno il classico sasso nello stagno limaccioso del cosiddetto semestre bianco davanti al Quirinale.

A lanciare il sasso è stato, in particolare, il segretario del Pd Enrico Letta -ospite a Rimini con i leader degli altri partiti della maggioranza di governo, fatta eccezione per Silvio Berlusconi rappresentato da Antonio Tajani- sostenendo la permanenza di Mario Draghi a Palazzo Chigi “almeno sino al 2023”, cioè sino alla scadenza ordinaria della legislatura e alle elezioni per il rinnovo delle Camere. Il che significa, come hanno subito avvertito i decriptatori più o meno professionali dei messaggi politici, un bel no sia al trasferimento di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale, per sostituire Sergio Mattarella alla scadenza del settennato, sia allo scioglimento anticipato delle Camere da parte di chi dovrà comunque succedere al presidente uscente della Repubblica.

In teoria, non essendo andato più in là di quell’”almeno” nelle sue parole a Rimini, si potrebbe attribuire al segretario del Pd una disponibilità ad unirsi a chi ha già auspicato una rielezione a termine di Mattarella, come già avvenne nel 2013 con Giorgio Napolitano. Ne ha parlato di recente con i giornalisti il sindaco piddino di Pesaro Matteo Ricci aspettando proprio Mattarella in visita nella sua città, e spiegando come ciò servirebbe a rinviare l’elezione del successore alla nuova legislatura, ad opera di Camere più legittimate o, se preferite, meno delegittimate delle attuali: le ultime, fra l’altro, di quasi mille parlamentari, contro i seicento complessivi delle nuove, fra deputati e senatori eletti, per effetto della riforma voluta dai grillini e ratificata col referendum non a caso chiamato “confermativo”.

Si sa che poi il sindaco marchigiano ha trovato il modo di ripetere la sua opinione direttamente al capo dello Stato, ma non se n’è conosciuta la reazione: se uguale o diversa dalla confessione da lui fatta nei mesi scorsi ad una scolaresca di non vedere l’ora di prendersi a febbraio il meritato riposo pur di senatore a vita. Che non fu proprio tale -ad esempio- per il suo amico e collega di partito Francesco Cossiga, il quale da ex presidente della Repubblica continuò a partecipare attivamente alla politica da attore per niente distaccato.

Matteo Ricci è un uomo che da un po’ di tempo a questa parte tiene a presentarsi come un uomo fedele alla “disciplina di partito”, che ha preferito, per esempio, alla tentazione pur confessata di sostenere almeno alcuni dei referendum sulla giustizia promossi da radicali e leghisti. Ciò potrebbe autorizzare a pensare, ripeto, che l’idea di un Mattarella convertito ad una rielezione implicitamente a termine, e quindi rassegnato a sospendere la ricerca di una casa in affitto dove trasferirsi a febbraio, possibilmente vicino alla figlia, non dispiaccia ad Enrico Letta. Che tuttavia potrebbe anche essere trattenuto su questa strada dal timore di dare del suo partito un’immagine di debolezza, come se non avesse candidati spendibili per una successione ordinaria a Mattarella, che magari smaniano invece di essere messi in pista.

Lo stesso Enrico Letta potrebbe giocarsi la partita scommettendo indovinate su chi? Ma addirittura su Matteo Renzi, che nel 2014 lo detronizzò da Palazzo Chigi confidando al generale della Finanza Michele Adinolfi intercettato al telefono di considerare l’allora presidente del Consiglio al posto sbagliato, non adatto a lui, avendo invece migliori requisiti per il Quirinale. Ma allora Enrico Letta non aveva ancora l’età per aspirarvi. Ora invece ce l’avrebbe, con i suoi 55 anni compiuti il 20 agosto.

Curiosamente però una candidatura del segretario del Pd al Quirinale, pur essendo noto il rapporto preferenziale da lui stabilito col nuovo presidente del MoVimento 5 Stelle Giuseppe Conte per un centrosinistra largo eccetera eccetera, potrebbe non andare bene proprio ai grillini. Fra i quali quell’”almeno fino al 2023” di Draghi a Palazzo Chigi ha diffuso la paura che Letta voglia trattenerlo alla guida del governo anche nella nuova legislatura, magari per fargli realizzare il piano della ripresa sino all’ultima tappa -nel 2026- del percorso delle riforme concordate con l’Unione Europea a garanzia dei finanziamenti ottenuti, tra debiti e stanziamenti a fondo perduto.

Già si è levato dal solito Fatto Quotidiano il mormorio ironico ma non troppo contro un Draghi “fino al 2028”, cioè per tutta la prossima legislatura. Il direttore di Domani, il quotidiano di Carlo De Benedetti, si è sorpreso a sospettare che Letta non abbia candidati credibili alla presidenza del Consiglio dopo le elezioni del 2023, dando forse per scontato che le vinca il centrodestra. E Giuliano Ferrara ci ha messo del suo sul Foglio dando del “cretino” a chiunque non capisca che, con i tempi che corrono, in Italia ma anche fuori, Draghi sul colle del Quirinale per 7 anni, col suo prestigio personale e tutto il resto, valga molto di più che un Draghi sulla collinetta, diciamo così, di Palazzo Chigi per un anno o poco più, e chissà cosa dopo.

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