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Letta Di Maio

Perché mi stupisco degli stupori sugli afflati di Letta pro Di Maio

Il corsivo di Teo Dalavecuras.

Sulla sponda progressista del fiume – un pochino torbido – nel quale scorre il nostro discorso pubblico, la testata online Linkiesta gode di buona considerazione. Naturale, quindi, che le principali firme della testata offrano spesso e volentieri i loro suggerimenti all’organizzazione che – senza offesa per Giuseppe Conte – costituisce il principale punto di riferimento del progressismo italiano, il Partito democratico: qualche volta con la forza della logica, altre con l’autorità della storia, sempre con l’apprensione, l’enfasi e la vis polemica che si riserva alle cause che si sentono proprie.

L’altro ieri, il tono prevalente dell’amichevole quotidiana predica ai compagni del Nazareno era lo stupore preoccupato, che è uno stile retorico fisiologico in un educatore, quando si mantenga nei limiti del verosimile.

Primo motivo di stupore, il sindaco di Roma Roberto Gualtieri. Scrive Linkiesta: “è difficile ricordare un altro sindaco con così poca presenza fisica, mediatica, politica e questa è evidentemente una scelta del Sindaco, che è non solo caratterialmente un mite, uno che non ama le luci della ribalta, ma è anche un uomo politico abituato a lavorare in silenzio”. È il profilo comportamentale di un burocrate, ma se questo è lo stile e il carattere di Gualtieri è difficile credere che coloro che lo hanno scelto candidandolo e che lo hanno votato se ne accorgano soltanto ora, otto mesi dopo il suo insediamento in Campidoglio, e si agitino nel timore che il low profile del sindaco pregiudichi le luminose prospettive della sua giunta. Si agitino così tanto da adombrare rischi di complotti: “Non vorremmo che l’azione della Giunta e dello stesso sindaco fossero in qualche modo ostacolate o condizionate da ambienti politici, come se vi fosse una azione parallela di pezzi della politica a quella istituzionale”.

Secondo motivo di  stupore, le parole del segretario pd Enrico Letta  che, all’indomani del “divorzio” di Luigi Di Maio da Giuseppe Conte, pur gettando, diciamo così, acqua sul fuoco, non avrebbe escluso con tutto lo sdegno necessario una prospettiva che l’analista de Linkiesta giudica sciagurata. Dice Letta: “È prematuro parlare di Di Maio nel nostro partito, ma dialogo con tutti”. In questo caso, più che di stupore si dovrebbe parlare di scandalo data la veemenza del commento: “Luigi Di Maio”, così Linkiesta, “per chi non lo ricordasse, era candidato alle ultime elezioni politiche come capo di un movimento che si è sempre posto quale principale obiettivo quello di spazzare via la «piovra» del Pd (per usare le parole di un loro indimenticabile manifesto del 2016), lo stesso Di Maio che nel 2019 accusava in un video i democratici di togliere alle famiglie «i bambini con l’elettroshock per venderseli»”.

Questo miscuglio di stupore e di scandalo non è un atteggiamento episodico ma riflette la linea costante non solo della testata online che si colloca sulla stessa sponda del Pd, ma di gran parte della pubblicistica fiancheggiatrice. E – come la mia ignoranza delle cose della politica mi consente – devo a mia volta confessare che questo stupore mi stupisce.

Provo a spiegarmi, considerando le cose con il massimo di superficialità possibile, secondo la saggia raccomandazione di Karl Kraus. Achille Occhetto è stato l’ultimo leader di quello che sarebbe diventato il Pd, nel senso che è stato il dirigente che ha sposato una politica mettendo in gioco la propria persona: da questo punto di vista tra Enrico Berlinguer e Occhetto non c’è nessuna differenza, mentre ce n’è tantissima tra Occhetto e coloro che gli sono succeduti. Dopo Occhetto il gruppo dirigente dell’ex Pci ha capito che il tempo della politica, in Italia, era finito, e si è trasformato in una sorta di fondazione dedicata alla gestione delle cospicue posizioni di potere e reti d’influenza ereditate, affidando a un’oculata politica delle alleanze il mantenimento della disponibilità di un adeguato quantitativo di voti (un po’ come le famiglie aristocratiche si affidavano a un’efficace politica matrimoniale “borghese” per conservare il proprio prestigio e trovare partner capaci di sostenerne le spese).

Una scelta incompatibile con l’ambizione di perseguire obiettivi politici che non  richiede – anzi non tollera – leader politicamente ambiziosi ma esige burocrati carrieristi, possibilmente alti: certo, non tutte le organizzazioni possono permettersi un Mario Draghi, talune devono accontentarsi di un Letta o di un Gualtieri anche perché forse bastano e avanzano. Occhetto fu l’ultimo. Matteo Renzi ci ha provato a  fare il capo politico ma, dopo essere stato investito dalle ruspe dei “professoroni” e dei “giornaloni” (ricordiamo ancora quell’inedito “Devo essere sincero: Renzi non mi convince” col quale si apriva un editoriale di prima pagina del Corriere della sera di otto anni fa), ha imparato la lezione e si è trasformato in un vero professionista, una sorta di gestore di “operazioni di sistema”, delle quali infatti ha menato vanto ancora di recente in un’intervista a Le Temps: l’ostracismo a Matteo Salvini nel 2019 e la defenestrazione di Conte nel 2021-21.

Del resto, Letta è stato votato all’unanimità e la sola cosa su cui i vecchi e nuovi cacicchi del Pd – a prescindere dai deliri grillini sulla piovra – sono sicuramente unanimi è sulla volontà di conservare la posizione centrale nel sistema di potere italiano che un insieme di circostanze, dal crollo del Muro di Berlino all’operazione Mani Pulite per dir le cose più vistose, ha concesso loro. Da questo punto di vista è evidente, anche a persone digiune di politica, che la scissione dei Cinque Stelle “mette sul mercato” interessanti quantitativi di voti sui quali bisogna affrettarsi a mettere il cappello. Altro che “politica – intesa come lotta per affermare una posizione, per rappresentare qualcuno e qualcosa” come vorrebbero le anime belle dei fiancheggiatori del Pd.

Che poi questa sia la situazione non solo italiana, ma pur con modalità differenziate in tutta Europa, lo ha capito da un bel po’ l’uomo della strada, che in maggioranza non si prende più nemmeno il disturbo di andare a votare. Né si vede perché dovrebbe, in Paesi a doppia sovranità limitata, dipendenti non solo dal Paese-guida di oltre Atlantico ma anche dall’infernale lobby capital-tecno-burocratica di Bruxelles.

Onore al compagno Leonida Breznev. Dall’altra parte del Muro queste scomode verità le aveva enunciate senza falsi pudori già il 13 novembre 1968: “Quando le forze che sono ostili al socialismo cercano di portare lo sviluppo di alcuni paesi socialisti verso il capitalismo, questo non diventa solo un problema del paese coinvolto, ma un problema comune e una preoccupazione per tutti i paesi socialisti”. Basta sostituire “capitalismo” con “autoritarismo”, “socialismo” con “democrazia”, e si vede, ancora una volta, come plus ça change plus c’est la même chose.

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