Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare (Bruno Munari).
“Less is more” è una formula che conoscono bene non solo i designer e gli architetti, ma anche gli stilisti. Se c’è una stilista che l’ha interpretata con superba fantasia, questa è stata Coco Chanel (1883-1971). Una donna sempre controcorrente, sempre ribelle agli stereotipi femminili. Il suo è stato un sovvertimento radicale dei canoni sartoriali dell’epoca: abiti stretti e ingessati, impolverati e scomodi. Al corsetto e alla crinolina contrappone abiti morbid e sobri, senza costrizioni e stringhe. Una moda che rispecchiava i cambiamenti della società: eleganza contro imposizione, disinvoltura contro restrizione. L’antitesi dei colori opposti, l’introduzione della comodità del jersey e della tracolla: in lei c’era l’avanguardia di uno stile rivoluzionario che ritrovava nella praticità la stessa ragion d’essere di un mestiere altamente qualificato. Più che una sua musa, un’audace imprenditrice in tailleur bicolore, che ha fatto della semplicità un simbolo dei tempi moderni. La stessa invenzione della tracolla (1955), sottintendeva un messaggio di libertà, di una libertà dei costumi da riconquistare, che diventerà un inno degli anni Sessanta.
Proprio in quel decennio si riapre la vexata quaestio del rapporto tra arte e design. In uno scritto di Carlo Giulio Argan del 1964, vengono chiaramente spiegati i termini della discussione: “All’arte pura è stato generalmente riconosciuto un grado di valore e di dignità più elevato che all’arte applicata […]. Questo giudizio dipendeva dalla valutazione della tecnica come mera manualità, priva di carattere e forza ideale. Nel secolo scorso, cioè proprio quando avveniva la rivoluzione industriale, quell’ordine di valori si è invertito[…]. I ponti, i viadotti, i grandi magazzini, infine le prime costruzioni in ferro e in cemento sono il precedente diretto del disegno industriale; la loro ‘bellezza’ dipende dalla loro perfezione tecnica e dalla loro aderenza a una funzione pratica; e poiché la tecnica e la pratica implicano un fare, l’idea del bello si connette al fare e non più al contemplare” (Il disegno industriale, in Progetto e destino, Il Saggiatore). Questa citazione registra il mutato atteggiamento nei confronti del design, ma non chiude la polemica sul suo rapporto con l’arte, peraltro un problema non ancora risolto.
Si tratta di una polemica che vanta illustri antenati. Fu infatti Tiziano il primo a rivendicare per il proprio lavoro lo statuto di opera d’ingegno. Gli altri pittori vendevano i loro quadri; cittadino della Serenissima, nel 1567, ottenne dal senato veneziano i diritti sulla riproduzione dei suoi dipinti. Per la prima volta, in modo ufficiale, il valore non veniva calcolato sull’esecuzione materiale, ma sull’invenzione, sull’idea compositiva. Però solo nel 1735 un altro pittore, il londinese William Hogarth, riuscì a ottenere il primo vero atto legale di riconoscimento della proprietà intellettuale, cioè i diritti d’autore sulle immagini.
La vecchia questione del rapporto tra arte e design non può essere dunque ignorata, soprattutto perché sono sempre più numerosi i giovani che si avvicinano al design con intenzioni artistiche. Del resto, dopo l’orinatoio di Marcel Duchamp (1917), è difficile circoscrivere con precisione il fatto artistico. Quando nel linguaggio di tutti i giorni diciamo “è arte”, più che a una definizione spesso ricorriamo a una metafora: diciamo “è arte” ma intendiamo “è come un’opera d’arte”, delegando ad essa il ruolo del disinteresse e della contemplazione. Ma forse un’arte siffatta -sganciata dalle esigenze quotidiane della società- non c’è mai stata, tanto che nel contratto di Botticelli si legge che la “Primavera” (1480 circa) aveva una funzione di arredamento, ossia che il dipinto sarebbe stato appeso sopra una cassapanca nella villa del suo amico e protettore Lorenzo di Pier Francesco de’ Medici. Insomma, non è vero che il design è solo utile mentre l’arte è il tempio dell’espressione spassionata.
* Il Foglio