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Tunisia

Le utopie putiniane e le sfide dell’Occidente

Meglio pensare ad un Occidente più coeso, pronto a sostenere le sfide di quel blocco che sembra essere sempre più destinato a rinverdire la grande utopia social-comunista. Il commento di Gianfranco Polillo

 

Va bene l’eventuale autocritica, ma senza esagerare. Massimo D’Alema, nella sua intervista a La Stampa, dopo aver condannato con fermezza l’aggressione militare russa contro l’Ucraina, accenna ai torti dell’Europa non solo nei confronti della nomenclatura, ma dello stesso popolo russo. Lasciato solo, dopo la dissoluzione dell’impero, in una crisi dolorosa che ha segnato il destino di un’intera generazione. Vladimir Putin – questo il ragionamento – altro non è che il prodotto di quelle immense privazioni. Su quelle macerie ha ricostruito il disegno di una Russia dalle nuove mire imperiali.

L’Europa, quando era il momento, doveva intervenire. Doveva dar luogo ad una sorta di “piano Marshall” che alleviasse le sofferenze del popolo. Legando le nuove classi dirigenti del Paese al destino del Vecchio continente. Con il senno del poi: verrebbe da dire. Di solito inutile giustificazione. Per l’occasione, invece, ben poco rispettosa degli accadimenti reali che segnarono, in quegli anni di lacrime e sangue, l’intera vita europea.

Come si ricorderà alla caduta del muro di Berlino, fece seguito un difficile decennio, in cui le élite europee si impegnarono nella non semplice costruzione di un proprio futuro, dagli incerti sviluppi. Il primo passo era costituito dalla riunificazione tedesca: precondizione di qualsiasi futuro progresso europeo, verso la costruzione di una casa comune. Da parte delle Autorità tedesche l’allargamento verso est – perché di questo si trattò, considerata l’invarianza della Grundgesetz – poteva essere gestito meglio.

Prevalse invece l’esigenza di tutelare gli assetti interni del Paese. Soprattutto dimostrare agli abitanti dell’ex DDR che non sarebbero stati trattati come cittadini di seconda categoria. Per questo motivo, in contrasto con qualsiasi legge economica, il cambio tra le due monete (marco occidentale ed orientale) fu fissato alla pari. Sebbene le distanze tra i due territori, in termini di produttività, livelli salariali, infrastrutture materiali ed immateriali, e via dicendo, fossero abissali.

Le conseguenze economiche di quelle scelte furono immediate. La domanda interna schizzò alle stelle, soprattutto grazie ai maggiori consumi dei nuovi arrivati, dopo gli anni di privazione del regime comunista. L’offerta di beni, nonostante il forte potenziale industriale della RFT, si dimostrò ben presto insufficiente, dando luogo ad un’inflazione persistente ed ad uno squilibrio crescente dei conti con l’estero. Quest’ultimo destinato a durare fino alla nascita dell’euro.

Per far fronte ad una situazione finanziaria, che richiamava alla mente i fantasmi della Repubblica di Weimar, la Bundesbank spinse al massimo i tassi d’interesse. Attraverso questa via si volevano perseguire due distinti obbiettivi: sostenere il cambio della nuova moneta; attirare dall’estero i capitali necessari per finanziare la riunificazione del Paese. E fu la fine. Il crollo del Sistema monetario europeo, messo in piedi dal 1979, sancì la fine di un epoca. Svalutazione della lira, della sterlina, della peseta e dell’escudo portoghese. Stretta creditizia in Francia ed in Svezia, dove i tassi d’interesse raggiunsero l’iperbolica cifra del 500 per cento, per arrestare l’emorragia di capitali.

Il caos durò soprattutto dal 1992 al 1994. Inutile aggiungere che allora era più che difficile ipotizzare eventuali “piani Marshall”. Nel periodo successivo, l’attenzione prevalente fu rivolta alla costruzione dell’UEM (Unione economica e monetaria) secondo il Piano Delors del 1988. Le nuove regole indicavano un sentiero segnato soprattutto dal rigore finanziario. I criteri di convergenza verso la nuova moneta erano stringenti: rispetto delle regole di Maastricht (debito e deficit di bilancio), controllo del processo inflazionistico, tenuta della bilancia dei pagamenti, interessi a lungo termine entro valori soglia.

Nelle condizioni date era difficile pensare a finanziamenti agevolati a favore della Federazione Russa. Rispetto all’esperienza americana dell’immediato dopoguerra, mancava poi l’elemento essenziale. Nel 1947, anno in cui il Piano Marshall fu varato, gli USA godevano di un forte avanzo della bilancia dei pagamenti, sia sul fronte commerciale che su quello finanziario. Nello stesso tempo, l’industria che si era enormemente sviluppata grazie alle commesse belliche, rischiava una crisi di sovrapproduzione. Il Piano Marshall fu l’uovo di Colombo: finanziamenti all’Europa, per gli acquisti di prodotti americani.

Al contrario l’Europa degli anni ‘90, ma gli stessi Stati Uniti, si trovavano in una posizione opposta. Washington era alle prese con un forte deficit della bilancia commerciale ed una politica di bilancio prudente, nel tentativo di contrastarlo. A sua volta la bilancia dei pagamenti europea era in un precario equilibrio. Mentre dal punto di vista finanziario, la stessa Europa più che esportatrice era importatrice di capitali. Era quindi difficile pensare allora a quell’atto di generosità, che D’Alema avrebbe voluto. Ma non per questo, almeno negli anni successivi, vi fu indifferenza. Al contrario si peccò all’opposto, abbandonando – come ha ricordato Mario Draghi – ogni ipotesi di diversificazione delle fonti energetiche di approvvigionamento. Per consegnarsi, mani e piedi, ad un unico fornitore monopolistico. Quel gas russo che, oggi, con i tagli pilotati nelle forniture, rischia di strangolare l’economia del continente.

Il progressivo smantellamento della vecchia politica energetica, in passato così attenta nel diversificare le fonti, fu figlio di valutazioni diverse. L’accettare supinamente la logica mercantilistica del processo di globalizzazione. L’idea della “fine della storia”: non di quella universale, ma del ‘900. L’abilità manovriera degli autarchi russi, titolari delle aziende fornitrici: si pensi solo alle vicende di Gerhard Schröder. La persistenza di antichi legami tra la nuova nomenclatura ed alcuni esponenti del vecchio mondo europeo.

Comunque sia, sta il fatto che seppure mancò il Piano Marshall, esso fu tuttavia, abbondantemente, sostituito dai proventi delle forniture di gas. Asset strategico che la Russia avrebbe dovuto tutelare. Invece di buttare alle ortiche i relativi contratti, per far prevalere la ragion di Stato. Brutto precedente. Che minerà le future relazioni diplomatiche e commerciali. Ed ecco allora che le differenze con il ragionamento di D’Alema diventano profonde. Più che ad un Europa unita da contrapporre agli USA ed alla Cina, come da lui suggerito. Meglio pensare ad un Occidente più coeso, pronto a sostenere le sfide di quel blocco che sembra essere sempre più destinato a rinverdire la grande utopia social-comunista.

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