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Giorgetti

Le sberle democratiche a 5 stelle di Draghi

Perché Pd e M5s sono sempre più distanti da Draghi. I Graffi di Damato

 

E’ in corso una strana gara fra il Pd e il Movimento 5 Stelle, in ordine non della loro consistenza parlamentare ma di quella che si ricava da tutti indistintamente i sondaggi. I quali fanno apparire sempre più nitidamente la sostanziale delegittimazione ormai del Parlamento in carica, come se non fosse bastato il colpo datogli dai grillini, con l’appoggio prima della Lega e poi dello stesso Pd, riducendo di più di un terzo, quasi la metà, i seggi complessivi delle Camere da eleggere nel 2023.

Pertanto quelle attuali dovranno scegliere a febbraio prossimo il nuovo presidente della Repubblica, pur destinato a rimanere in carica sino al 2029, con un’autorevolezza, diciamo così, da Paperopoli.

Nessuno peraltro sembra preoccuparsi più di tanto di questa grave anomalia: neppure, a dire la verità, il presidente uscente Sergio Mattarella quando dice, sia pure ad una scolaresca di livello elementare, che non vede l’ora di riposarsi fra otto mesi. E si lascia così attribuire l’indisponibilità all’unica soluzione che potrebbe restituire una po’ di logica vera, non solo fittizia, alla prossima edizione della corsa al Quirinale. Sarebbe la rielezione dello stesso Mattarella proprio in attesa che il prossimo Parlamento, maggiormente legittimato, possa provvedere ad una vera e propria successione al vertice dello Stato. Che è pur sempre il vertice, appunto, chiamato sempre più frequentemente da un bel po’ di tempo a questa parte a supplire al vuoto, e niente di più, che riescono a produrre i partiti in crisi dichiaratamente identitaria.

Proprio in virtù di questa crisi tanto il Pd quanto il Movimento 5 Stelle faticano ogni giorno, o addirittura ogni ora di più a riconoscersi nel governo di emergenza di Mario Draghi, di cui hanno pur deciso di fare parte al termine dell’ultima crisi, dopo avere inutilmente tentato di riesumare il secondo e dimissionario governo di Giuseppe Conte con un sostanziale rimpasto. Scrivo così giusto per essere chiaro, e onesto, con chi legge, senza partecipare ad altre immaginarie e farlocche rappresentazioni dei fatti verificatisi fra novembre e febbraio scorsi, da quando Matteo Renzi prima col consenso del Pd e poi da solo rimise in discussione l’allora presidente del Consiglio sino a rovesciarlo.

Di “mugugni” nel Pd ha parlato giustamente Il Foglio ricordando i sostanziali schiaffi ricevuti da Draghi prima con la bocciatura – sempre per parlare chiaro – dell’aumento della tassazione sulle eredità proposto da Enrico Letta e poi con la correzione della proroga del divieto di licenziamenti predisposta dal ministro piddino del Lavoro Andrea Orlando fra le proteste della Confindustria.

Di “schiaffi ai 5 Stelle” ha parlato Il Fatto Quotidiano – e chi sennò? – riferendo delle nomine predisposte dal presidente del Consiglio alle Ferrovie dello Stato, alla Cassa Depositi e Prestiti e altrove. Ma sempre sul Fatto, in un editoriale del suo direttore, la pur autorevole Guardasigilli Marta Cartabia, già presidente della Corte Costituzionale, è diventata “la cosiddetta ministra” per essersi proposta di disciplinare diversamente la prescrizione ridotta ai minimi termini, quasi abolita, dal predecessore Alfonso Bonafede, e per non avere cambiato idea dopo avere incontrato lo stesso Bonafede alla guida di una folta delegazione pentastellata. Dare della “cosiddetta” ministra alla Cartabia è come dare del cosiddetto al governo Draghi. Almeno così sembra ad uno abituato da un bel po’ a seguire la politica italiana senza lasciarsi imbrogliare dai furbi di turno.

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