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Le news su Dagospia, Angelucci, Aponte, Mazzotta, Bankitalia, Salini e non solo

Che cosa si scrive e che cosa non si scrive di Dagospia, Angelucci, Aponte, Mazzotta, Salini, Annunziata, Bettini e non solo. Pillole di rassegna stampa.

 

DAGOSPIA IN MOSTRA A LONDRA

 

RITOCCHINI IN BANKITALIA

 

PALAZZO CHIGI SU MAZZOTTA

 

PALAZZO CHIGI SU WEBUILD-SALINI

 

GRAZIE SUPERBONUS. PAROLA DI INTESA SANPAOLO

 

LA STAMPA DIFENDE IL RAGIONIER MAZZOTTA

 

ANGELUCCI IN CINA

 

IL FOGLIO DIFENDE ANGELUCCI

 

I PIANI DI APONTE PER IL SECOLO XIX

 

L’ITALIANITA’ DI APONTE

 

IL PERIMETRO DI MSC

 

APONTE? UN PLAYBOY…

 

CHI RIDE PER LA DIGA…

 

REPUBBLICA ELOGIA TAJANI!

 

L’ANNUNCIAZIONE DI ANNUNZIATA

 

SILENZIO, PARLA BNL

 

DELLA VALLE SILURA FERRAGNI, ABETE E MONTEZEMOLO

 

I NUMERI DI DISNEY+

 

ITALIA ALL’UNGHERESE

 

CARTOLINA DAI PAESI BALTICI

 

CARTOLINA DAGLI STATI UNITI

 

CARTOLINA DAL SENEGAL

 

CHI E COME FINANZIA LA JIHAD

 

QUISQUILIE & PINZILLACCHERE

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ESTRATTO DI UN ARTICOLO DEL FOGLIO SU APONTE:

Il Comandante ha conquistato anche un giornale. Meglio, per il momento se l’è comprato: Gianluigi Aponte, 83 anni, proprietario di Msc, è il nuovo editore del Secolo XIX e questo già si sa. Base d’asta “15 milioni di euro”, è la richiesta che John Elkann aveva trasmesso al suo braccio armato, Roberto Scanavino, amministratore delegato di Gedi, gruppo che dopo la cessione della testata ligure detiene solo due giornali, la Repubblica e la Stampa.

Cifra quasi rispettata, closing fissato a 14 milioni, che sono tanti, ma non fanno la differenza per chi come l’armatore napoletano ha già messo nel carrello della spesa Grandi navi veloci e Italo, i Rimorchiatori mediterranei (con base a Genova), le compagnie di trasporto merci su rotaia e su gomma, i traghetti del Golfo di Napoli. Inoltre Aponte è a un passo dall’Aeroporto di Genova e potrebbe aggiudicarsi anche Ita Airways. Msc è numero due al mondo nelle navi cargo e tra le prime compagnie di crociera al mondo: conclusi gli ultimi vari avrà una flotta di circa 150 unità, più del triplo della Marina militare italiana, giusto per spiegare subito quale sia la forza di fuoco dell’imprenditore che da anni ormai risiede in Svizzera (è il secondo uomo più ricco della Confederazione), sul lago di Ginevra.

Nella trattativa che gli ha portato in dote Il Secolo XIX non ci sarebbero stati rilanci eclatanti, anzi, alla fine le pretese torinesi sarebbero pure scese, restando comunque in doppia cifra, “per un giornale che nel 2024 perderà 4 milioni di euro, che vende 21 mila copie con una discesa annua prevista sul 10 per cento e che sicuramente dovrà investire sul digitale, considerato che oggi questa voce non supera il 10 per cento del fatturato. Esattamente la stessa percentuale del numero di copie perse ogni anno in edicola”, racconta chi ha partecipato alla trattativa. I giornalisti, al termine della ristrutturazione prevista per metà estate, resteranno 61. Ma il sindacato interno del giornale (il cdr) così come quello regionale e nazionale hanno già detto chiaro e tondo che la “priorità è mantenere gli attuali livelli occupazionali”, mentre la narrazione cittadina già racconta (fondate) novità: “Sono sei mesi che il gruppo Msc lavora al progetto, tanto che sono state organizzate minicrociere per selezionare nuovi giornalisti, i quadri dirigenti in particolare, quelli che saranno l’ossatura del nuovo modello di quotidiano”. Dunque, come se non bastasse, oltre ai 61 giornalisti in organico il Secolo XIX battente bandiera Msc imbarcherebbe un’altra ventina di reporter specializzati. Meglio dell’Arca di Noè viste le vacche magre della carta stampata.

Perché un armatore voglia fare anche l’editore al momento non è chiarissimo. Ai notabili di Genova e della Liguria il Comandante ha spiegato che “sarà un quotidiano di alto livello, autorevole e indipendente”. Alzare il livello non è affatto male in una città come Genova dove i commerci del porto e non solo raccontano purtroppo che il basso cabotaggio non è il male peggiore. C’è dell’altro: “Sarà un nuovo modello di quotidiano, che avrà come focus essenziale e prioritario il mondo dello shipping, un giornale nazionale e internazionale, in grado di essere competitivo con Lloyd’s List, che però è online e non un quotidiano cartaceo”.

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ESTRATTO DI UN ARTICOLO DEL QUOTIDIANO LA STAMPA SU MAZZOTTA E IL SUPERBONUS:

Il documento (pubblico) risale a maggio dell’anno scorso. Si intitola «Gli immobili in Italia nel 2023». Pagina 196, figura 6.5: «Andamento dei totali dei lavori ammessi e conclusi» raccolti dall’Enea, uno dei tanti protagonisti di questa commedia degli equivoci. E’ la rappresentazione più evidente dello tsunami che quella misura – varata nel 2020 dal secondo governo Conte – ha prodotto sui conti pubblici. A quel tempo il governo Meloni stava già tentando di fermare l’onda anomala, senza successo.

Si legge nell’introduzione del capo dipartimento del ministero delle Finanze Giovanni Spalletti: «Seppure larga parte degli investimenti che hanno beneficiato del superbonus non si sarebbero realizzati senza incentivo, anche tenendo conto delle imposte e dei contributi versati a fronte dell’aumento dell’attività del settore, gli oneri per il bilancio pubblico restano comunque ingenti». La tabella 6.7 di pagina 200 traduce in numeri le parole di Spalletti: a fronte di un investimento pubblico di dieci euro, nei primi due anni il superbonus ha garantito entrate per tre, e un costo per sette. Dal 2023 in poi lo scarto è ancora più alto: 8 euro di spesa, due di entrate.

Che gli incentivi edilizi lanciati alla fine della pandemia avrebbero avuto effetti disastrosi sul bilancio pubblico lo sapevano tutti: la Ragioneria generale dello Stato, il Dipartimento delle Finanze, l’Agenzia delle Entrate, l’Enea, il ministero del Tesoro e i tre governi che si sono succeduti dal 2020. Ma la feral decisione è sempre stata nelle mani del decisore politico: fermare o no l’infernale meccanismo della cessione dei crediti? Continuare o no a distribuire a pioggia un incentivo del quale lo Stato non era in grado di controllare la spesa.

A Giancarlo Giorgetti va il merito di aver provato a prendere il toro per le corna già all’inizio del 2023. Più di quanto non avesse fatto l’allora premier Mario Draghi, che il problema lo pose ma da ostaggio della maggioranza a trazione Cinque Stelle. Era il 16 febbraio dell’anno scorso. Il ministro del Tesoro entra in Consiglio dei ministri con in mano lo stop alla cessione dei crediti, la vera chiave del disastro annunciato. In conferenza stampa parlerà di una «politica scellerata ideata per creare consenso politico costata ad ogni italiano, compresi quelli in culla, duemila euro a testa».

Bimbo più, bimbo meno, Giorgetti aveva già contezza di una voragine da 120 miliardi di euro. Ma non aveva fatto i conti con le pressioni del settore e dell’intero arco parlamentare, che dello stop totale non ne voleva sapere. E così il Parlamento ha voluto che la voragine si allargasse ancora: lo stop fu fissato al 31 dicembre, i cui costi saranno chiari solo dopo Pasqua.

Ora la politica ha bisogno di un capro espiatorio, individuato nel Ragionere generale dello Stato Roberto Mazzotta. Nella maggioranza c’è chi vuole la sua testa, e pensa che la responsabilità sia nelle stime di chi ha bollinato i provvedimenti. Ma la faccenda è tremendamente più complessa di così. Perché la Ragioneria non aveva la responsabilità di stimare i costi del superbonus, semmai avrebbe dovuto essere compito del Dipartimento delle Finanze. E però nemmeno il Dipartimento delle Finanze è realmente responsabile, perché la perversione della misura è nella sua natura, che ha permesso fino a poche settimane fa di aprire un cantiere, cedere il credito, che di lì in poi ha circolato come una moneta parallela senza che lo Stato fosse in grado di controllarla.

Per dirla ancor più semplice: sebbene l’Agenzia delle Entrate abbia contezza delle fatture emesse in edilizia, nessuno è stato fin qui nelle condizioni di sapere quante di queste siano in capo agli incentivi. Accadrà solo il 4 aprile, l’ultima data utile per le comunicazioni sulle spese del 2023. Una settimana dopo Giorgetti dovrà presentare il Documento di economia e finanza, e allora si saprà quanto quella disastrosa eredità peserà di qui in poi sul destino del governo Meloni e dei contribuenti. Di certo c’è che sarà ben più dei duemila euro a testa stimati da Giorgetti ormai più di un anno fa: almeno tremila, bimbo più, bimbo meno.

 

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