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Giorgetti

Le carinerie dei giornalisti con politici e magistrati: analogie e differenze

C'è una differenza non irrilevante fra i magistrati e i politici trattati con dimestichezza, spinta sino alla complicità, dai giornalisti che ne scrivono. Ecco quale, secondo il notista politico Francesco Damato

 

Come il magistrato Alfonso Sabella si è vergognato dei colleghi intercettati al telefonino con Luca Palamara nella costruzione delle loro carriere, o nel boicottaggio di quelle altrui, passando per il Consiglio Superiore con logiche tutte di corrente, così mi sono vergognato di quei giornalisti catturati anch’essi dal Trojan: felici di concorrere in qualche modo a quel “mercato delle vacche”, per stare all’immagine sconsolata dello stesso Sabella.

Non faccio nomi per carità professionale, ma la dimestichezza confermata tra chi scrive di giustizia e chi la gestisce, o amministra, specie sul fronte dell’accusa, ripropone un problema sarcasticamente sollevato più volte dall’ex presidente della Camera, e magistrato pure lui, Luciano Violante. Che ha finito per condividere l’opportunità sostenuta dal compianto Giovanni Falcone di separare le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. Ma, consapevole delle difficoltà politiche e persino istituzionali dell’obbiettivo, si accontenterebbe della separazione delle carriere fra i pubblici ministeri e i cronisti giudiziari, che ne amplificano il potere sostenendone le distorsioni e gli intrecci con la politica.

Conosco bene l’obiezione degli interessati, su entrambi i versanti. Uguale dimestichezza esiste anche nei rapporti fra i politici e i giornalisti che se ne occupano. I cui telefoni, se finissero controllati col metodo del Trojan applicato a Palamara, offrirebbero uno spaccato dei due mondi non meno desolante. Non lo nego di certo, anche se l’esperienza personale mi ha permesso spesso di deludere fior di politici coi quali ho avuto dimestichezza, appunto, sino a rischiare di pagarne cara la collera.

C’è tuttavia una differenza non irrilevante fra i magistrati e i politici trattati con dimestichezza, spinta sino alla complicità, dai giornalisti che ne scrivono. Il potere dei politici fa semplicemente ridere rispetto a quello dei magistrati. Tanto aleatorio è il primo, sottoposto alle verifiche elettorali e sempre più spesso anche ai rischi delle interferenze giudiziarie, quanto solido e garantito è l’altro.

Il politico non dispone della nostra libertà, reputazione e altro ancora quanto un magistrato. Colludere col primo, e con i suoi errori, è meno rischioso, e dannoso, che colludere con l’altro. Lo provò sulla sua pelle il compianto Enzo Tortora morendone 32 anni fa, col fisico debilitato dal carcere e dallo sputtanamento subito sui giornali per l’ostinazione di magistrati che poi hanno fatto tranquillamente la loro carriera, dopo avere inseguito o coltivato pentiti di camorra da voltastomaco.

La paura del coronavirus ha giustamente imposto sanificazioni dappertutto. Ce ne vorrebbero anche in parecchi giornali che vivono da troppo tempo all’ombra delle Procure, peraltro senza neppure riuscire a vendere più copie, come riuscì invece a fare con vanto successivo e spavaldo Vittorio Feltri col suo Indipendente negli anni di “Mani pulite”, scambiando di proposito il ruspantissimo Antonio Di Pietro per un eroe di più mondi.

Mentre di palamerite, diciamo così, ha finito per ammalarsi e “perdere la testa” anche il vertice dell’associazione dei magistrati, come ha titolato il manifesto riferendo delle dimissioni della giunta esecutiva, il direttore del giornale più vicino, diciamo così, ai magistrati – naturalmente Il Fatto Quotidiano – ha annunciato ai lettori il proposito di rinnovarlo. Ma non sarà certamente la sanificazione che – essa sì – mi sorprenderebbe davvero. E premierebbe il talento che certo non manca a quei colleghi che si sentono ispirati da scuole come quelle di Indro Montanelli e di Enzo Biagi.

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