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Cartabia

Le carceri fra Cartabia, Bonafede e il Suslov del Pd

Il corsivo di Teo Dalavecuras.

Il 14 luglio scorso solo la Repubblica e il Dubbio hanno “aperto” con la visita del presidente del Consiglio e del ministro della Giustizia al carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove nei primi giorni di aprile, secondo quanto riferito dai media, c’era stato un pestaggio di massa, con modalità feroci, di detenuti a opera di elementi del personale di custodia. La notizia è emersa con grande clamore in seguito a una “visita” dei Carabinieri, il 28 giugno scorso, nell’istituto di pena.

Le prime pagine degli altri giornali mainstream, per diffusione o pedigree politico-intellettuale, da Corriere della Sera a Avvenire passando per il Manifesto, la Stampa ecc. ecc. hanno preferito ignorare la visita di Mario Draghi e Maria Cartabia al “carcere degli orrori” come forse giustamente benché con poca fantasia (scrivo forse perché anche in questo caso vale, a mio umile parere, la presunzione di innocenza) è stata ribattezzata la Casa circondariale S. M. Capua Vetere.

Tutti noi reagiamo alle notizie a modo nostro, quando non ci riguardano personalmente, e il temperamento o il ruolo professionale non ci portano a cavalcarle o rimuoverle.

Per quanto mi riguarda, ho apprezzato assai che i due politici abbiano atteso alcuni giorni (presumibilmente anche per verificare le notizie) prima di compiere il loro gesto altamente simbolico in una data altrettanto simbolica come quella della presa della Bastiglia, senza i preventivi rulli di tamburi e squilli di tromba ai quali i governi Conte-Casalino ci avevano abituato e che a quanto pare hanno lasciato dietro di sé schiere di nostalgici. Dico questo senza alcuna intenzione critica verso gli operatori dell’informazione che da decenni ormai, privi di altre risorse, costruiscono i loro palinsesti essenzialmente sulla base degli input ricevuti dai colleghi di Rocco Casalino sparsi in ogni angolo del mondo e in ogni tipo di istituzione, dal grattacielo dell’Onu di New York ai meno frequentati comuni della Padania, dalle grandi multinazionali alle procure della Repubblica; né potrebbero fare diversamente anche se, forse, avrebbero almeno potuto tentare, qualche anno fa, di opporre un minimo di resistenza alla pressione esercitata dalla seconda, più recente, fonte di “contenuti”: le forti e effimere emozioni prodotte 24 ore su 24 dai dilaganti social network.

Non voglio farmi illusioni: oltre a non fare notizia, l’esempio di stile e di civiltà offerto da Cartabia e Draghi non solo non è destinato a essere imitato ma non promette niente di buono sulla durata del loro mandato governativo. Perché non ha “mercato”.

Non c’è dubbio – credo che i sondaggi lo confermino – che gli italiani restano affezionati a un’altra chiave musicale, quella di Bonafede che esibisce “a reti unificate” lo scalpo di Cesare Battisti sul piazzale dell’aeroporto di Roma, o di Giuseppe Conte e del suo indimenticabile super commissario Domenico Arcuri che offrono alle telecamere i loro volti dei quali giustamente si compiacciono, e ai microfoni flussi melliflui e bene intonati di parole prive di contenuto; oppure, bisogna pure ricordarlo, di Sandro Pertini a Vermicino, per non attribuire ai soli 5stelle “meriti” molto ampiamente condivisi.

Male che vada, gli italiani sono disposti a accontentarsi dell’ennesima inchiesta nei confronti di Matteo Renzi e/o dei suoi cari, purché “titolata” a dovere, ma per quanto riguarda le carceri, una volta dissipato l’odore del sangue l’argomento perde qualsiasi interesse. Perché sia così lo ignoro (anche se sospetto che c’entri un sempre meno ingiustificato disprezzo per la “politica”, che una volta aveva a che fare con la “cosa pubblica”, che però dalla politica ha ormai divorziato: da tempo è traslocata a Bruxelles e i cittadini elettori sono dispensati dall’incomodo di occuparsene, della cosa pubblica).

Del resto, se il Suslov del Pd e il suo segretario seguitano caparbiamente a puntare le loro fiches su Conte, Bonafede e compagnia cantante (in senso quasi letterale), ci sarà pure una ragione.

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