skip to Main Content

Teodicea

La teodicea ai tempi del Coronavirus

"Il termine teodicea significa "giustizia divina". Ma quando scoppia un'epidemia, una guerra, un genocidio, un terremoto e qualsivoglia cataclisma, non scomodiamo l'Altissimo". Il Bloc Notes di Michele Magno

Come da copione, anche l’epidemia da Covid-19 è stata al centro delle teorie più strampalate, che spaziano dal complottismo all’ira divina. Don Livio Fanzaga, per esempio, ha pochi dubbi sulla sua origine. Nelle settimane scorse, il direttore di Radio Maria, in svariate e colorite prediche mandate in onda dall’emittente cattolica, ha infatti sostenuto che il coronavirus è un ammonimento divino (tramite la Madonna di Medjugorie) contro il secolarismo imperante, e ha invitato i fedeli a riprendere la strada maestra del sacro.

Le singolari tesi del sacerdote comasco, che in verità sembrano più vicine al Dio del Vecchio Testamento che a quello dei Vangeli, alludono a una questione (più o meno consapevolmente, poco importa) che ha attraversato la storia del pensiero teologico e filosofico occidentale. Mi riferisco alla questione della teodicea. Il termine, coniato da Wilhelm Leibniz nel 1710, letteralmente significa “giustizia divina”, ma l’enciclopedico inventore tedesco della calcolatrice meccanica lo usa per dimostrare la compatibilità tra l’esistenza del male e un Creatore infinitamente buono.

Nelle religioni orientali, dal taoismo al buddismo, l’assenza di una concezione metafisica del male, che cioè racchiude in sé le molteplici forme sia di quello morale sia delle sofferenze inflitte dalla natura, è strettamente legata all’assenza di un Dio unico, personale e signore dell’universo. Non fa eccezione il variegato mondo dell’induismo, nel quale tradizioni politeistiche convivono con  tradizioni enoteistiche, cioè dove -come nello shivaismo- una divinità domina incontrastata sulle altre.

Nel pensiero occidentale, invece, Dio è stato di volta in volta concepito come il Bene assoluto, ma che resta lontano e separato dall’esistenza (Platone); come l’Intelligenza pura, beatamente chiusa nella contemplazione di sé (Aristotele); come la Ragione cosmica che tutto regge e giustifica (Eraclito, gli stoici, Hegel); come un Dio “razionale” e impassibile, ma difficilmente conciliabile con il Dio dell’Alleanza, dell’Esodo e dell’Incarnazione (dagli scolastici ai deisti); infine, come l’Eterno che, tuttavia, diviene e insieme patisce il mondo (dai cabalisti a molti mistici). Ma, per chi volesse saperne di più, suggerisco due saggi esemplari: “Dio”, di Giovanni Filoramo; e “Teodicea”, di Emanuela Scribano (entrambi nel volume “I concetti del male”, a cura di Pier Paolo Portinaro, Einaudi, 2002).

Le prima critica “ante litteram” alla teodicea fu avanzata, nella sua formulazione più radicale, da  Epicuro (341-270 a.C) con la sua famosa “equazione”: “La divinità o vuole abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole né può; o vuole e può. Se vuole e non può, dobbiamo ammettere che sia impotente, il che è in contrasto con la nozione di divinità; se può e non vuole, che sia invidiosa, il che è ugualmente estraneo all’essenza divina; se non vuole e non può, che sia insieme impotente e invidiosa; se poi vuole e può, la sola che conviene alla sua essenza, da dove dunque provengono i mali e perché non li abolisce?”.

È nota la risposta a queste obiezioni che ha finito col prevalere nella teologia cristiana, nella versione di Origene come in quella di Agostino: il male non è altro che assenza di bene (“privatio boni”). Ma è stato soprattutto Agostino a insistere sulla corruzione congenita che deriva, per trasmissione, dal peccato originale dei “protoplasti” (ossia dei “progenitori” Adamo e Eva). Corruzione congenita che è madre di un male morale da cui soltanto la grazia insondabile del Signore libera i predestinati.

L’età moderna conosce tre grandi teodicee: quella di Leibniz, di Spinoza e di Nicolas Malebranche (1638-1715). Pur partendo da presupposti diversi, giungono a un identico risultato: Dio non avrebbe potuto creare un mondo diverso da quello attuale. Il caso di Malebranche è il più emblematico della logica di ogni teodicea. Ogniqualvolta si ammetta che il male è reale, e che esso appare tale anche agli occhi di Dio, e si voglia al contempo tenere fermo il principio della sua bontà infinita, l’unica strada percorribile dalla ragione -per difenderlo dall’accusa di essere causa del male- è quella di limitarne la potenza. Questo può avvenire sposando un aperto dualismo, come nel caso dei manichei, o accettando che la potenza divina possa essere limitata da un altro attributo: per Malebranche, seguace di Cartesio, dalla sua somma saggezza.

Le teodicee moderne pretendevano, dunque, di rendere il male pienamente intellegibile e giustificabile. Dopo il già citato Bayle (1647-1706), saranno gli illuministi francesi Voltaire e d’Holbach a metterle in discussione. Ma il principale artefice della loro crisi fu Kant. In un breve scritto pubblicato nel 1791, “Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea”, l’autore delle tre “Critiche” considera esecrabile che Dio giudichi con regole diverse da quelle degli uomini, e che quel che appare male a noi sia per lui legittimo. Secondo Kant, è la sofferenza e l’indignazione di Giobbe che emozionano; le “parole in difesa di Dio”, invece, irritano e non consolano.

La demolizione kantiana della teodicea e gli orrori del “secolo breve” hanno contribuito al rigetto della dottrina agostiniana che nega la realtà del male. Il punto di vista di Søren Kierkegaard, secondo cui il massimo che la filosofia possa fare è dare conto dell’incomprensibilità del male, è stato così assunto anche da un teologo protestante come Karl Barth e da due filosofi cattolici come Paul Ricoeur e Luigi Pareyson. Barth affronta il problema del male nella “Dogmatica ecclesiae” (1939), in cui il male è il Nulla, e il Nulla è ciò che Dio ha rifiutato. Proprio per tale motivo esso è incomprensibile. Questa tesi è stata accolta da Pareyson, mentre la posizione di Ricoeur è ancora più drastica: l’uomo di fede crede in Dio a dispetto del male.

Dopo queste brevi noterelle, mi sia consentita un’ultima considerazione. Quando scoppia un’epidemia (ma lo stesso vale per una guerra, un genocidio, un terremoto),  non scomodiamo l’Altissimo. La crisi del “Dio-tappabuchi” (l’espressione è del  pastore luterano Dietrich Bonhöffer, impiccato dai nazisti nel 1945), acuita in misura irrimediabile dal trauma della Shoah, dovrebbe aver congedato definitivamente l’idea di un male strumentale che serve a far meglio risplendere la bontà di un Dio sapiente alchimista, che trae il bene dal male.

Purtroppo, in talune circostanze il fanatismo religioso può prendere il sopravvento anche in qualche servitore della Chiesa. E il fanatismo religioso è sempre stato una brutta bestia. Può infatti facimente sconfinare nell’odio. E l’odio è una passione relazionale, nel senso che ha bisogno di qualcuno o qualcosa contro cui rivolgersi. Può raggiungere così il calor bianco o tramutarsi in gelido sentimento di rivalsa, contro chi ha una fede diversa o contro chi non crede. Confesso di non essere molto fiducioso al riguardo, ma nella tragedia che stiamo vivendo forse dovremmo tutti fare un passo indietro e cercare di svelenire gli animi.

 

Back To Top