Bertrand Russell insegnò nelle università di Cambridge e della California a Los Angeles e fu, insieme a George Edward Moore, uno dei filosofi anglosassoni più rappresentativi della polemica contro l’idealismo continentale. Autore, insieme a Alfred N. Whitehead, dei “Principia Mathematica”, diede contributi fondamentali anche alla filosofia del linguaggio con la teoria delle descrizioni. Inoltre, esercitò una forte influenza sul pensiero di Ludwig Wittgenstein, che fu suo allievo. Fu inoltre l’animatore del Tribunale che prese il suo nome, celebre per il l’impegno contro la guerra in Vietnam e per le battaglie pacifiste. Fu insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1950.
La teiera celeste di Russell è uno degli esempi ancora oggi più noti e discussi nelle dispute teoriche che riguardano l’esistenza di Dio o di altre entità metafisiche. Logico tra i più eminenti del Novecento, Russell elaborò la metafora della teiera celeste per punzecchiare i credenti con la sua sagace ironia: spettava a loro il compito di dimostrare l’esistenza del dio che veneravano. Non spettava allo scettico o al non credente, quindi, l’onere della prova.
Nel 1952 scrisse così un articolo intitolato “Is there a god?” (C’è un dio?) per la rivista “Illustrated magazine”, che glielo aveva commissionato ma poi non lo pubblicò. Ecco il testo:
“Molti benpensanti si esprimono come se fosse compito dello scettico smentire i dogmi e non del credente dimostrarli. Se io sostenessi che tra la Terra e Marte vi fosse una teiera di porcellana in rivoluzione attorno al Sole su un’orbita ellittica, nessuno potrebbe contraddire la mia ipotesi purché io avessi la cura di aggiungere che la teiera è troppo piccola per essere rivelata persino dal più potente dei nostri telescopi. Ma se, visto che la mia asserzione non può essere smentita, io sostenessi che dubitarne sia un’intollerabile presunzione da parte della ragione umana, si penserebbe giustamente che stia dicendo fesserie. Se però l’esistenza di una tale teiera venisse affermata in libri antichi, insegnata ogni domenica come la sacra verità e instillata nelle menti dei bambini a scuola, l’esitazione nel credere alla sua esistenza diverrebbe un segno di eccentricità e porterebbe il dubbioso all’attenzione dello psichiatra in un’età illuminata o dell’Inquisitore in un’era antecedente”.
Nel pensiero occidentale, Dio è stato di volta in volta concepito come il Bene assoluto, ma che resta lontano e separato dall’esistenza (Platone); come l’Intelligenza pura, beatamente chiusa nella contemplazione di sé (Aristotele); come la Ragione cosmica che tutto regge e giustifica (Eraclito, gli stoici, Hegel); come un Dio “razionale” e impassibile, ma difficilmente conciliabile con il Dio dell’Alleanza, dell’Esodo e dell’Incarnazione (dagli scolastici ai deisti); infine, come l’Eterno che, tuttavia, diviene e insieme patisce il mondo (dai cabalisti a molti mistici). Ma, per chi volesse saperne di più, suggerisco due saggi esemplari: “Dio”, di Giovanni Filoramo; e “Teodicea”, di Emanuela Scribano (entrambi nel volume “I concetti del male”, a cura di Pier Paolo Portinaro, Einaudi, 2002).
L’idea di Dio è l’idea più importante della filosofia, da quando essa ha cominciato a coniugarsi con le grandi religioni monoteiste della nostra storia. È l’idea dell’essere reale per eccellenza, della causa e del fondamento di tutto ciò che è reale e possibile. È l’idea di ciò che non può essere pensato che come realissimo e perfettissimo. Per Immanuel Kant è non solo possibile, è naturale che l’uomo si formi quest’idea; ma, ciò non significa che essa corrisponda a un oggetto reale.
Che l’uomo pensi Dio non significa che Dio esista, come invece sosteneva Anselmo d’Aosta, con argomenti poi ripresi da Cartesio e da altri filosofi. Neppure il fatto che l’uomo, per spiegare il mondo e se stesso, ricorra a Dio, come causa prima e fondamento di ogni realtà, prova che Dio esista. Su questo punto Kant ha già le idee molto chiare nel 1763, quando, nello scritto “L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio”, dimostra la fallacia dell’argomento di Anselmo d’Aosta, che chiama “la così detta prova cartesiana”.
“Si immagina, prima di tutto, un concetto di una cosa possibile, nella quale ci si rappresenta congiunta ogni vera perfezione. Ora si ammette che l’esistenza sia anche una perfezione delle cose, e si conchiude quindi dalla possibilità di un Essere perfettissimo alla sua esistenza. In tal modo si potrebbe dal concetto di ogni cosa, purché rappresentata come la più perfetta della sua specie, concludere alla sua esistenza; per esempio, concludere alla esistenza di un mondo perfettissimo, già per il solo fatto che può essere pensato. Ma, senza impegnarmi in una dettagliata confutazione di questa prova, confutazione già fatta da altri, io mi riporto soltanto a quanto è stato già dimostrato a principio di quest’opera, che cioè l’esistenza non è un predicato, e quindi non è predicato neppure della perfezione, e che perciò non si può da una definizione che contenga un’arbitraria unificazione di diversi predicati allo scopo di costituire il concetto di una qualche cosa possibile, concludere giammai alla esistenza di questa cosa, e conseguentemente neppure all’esistenza di Dio”.
L’esistenza è un dato, insomma, diventa un predicato solo in base all’esperienza che ci fornisce il dato. Non può essere ricavata con il semplice rigore logico dall’idea di una cosa. Dall’idea di una cosa possiamo ricavare tutte le proprietà implicite nella sua definizione, non la sua esistenza reale.
Definire una cosa e dichiararla reale sono due operazioni ben distinte.