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giudici albania

La separazione delle carriere alla prova del referendum

Personalizzare la prova referendaria, magari anche celebrandola come la vendetta postuma di Silvio Berlusconi, sarebbe un grave errore politico. La lettera di Michele Magno

Caro direttore,

il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge costituzionale che riforma, in particolare ma non solo, l’ordinamento giudiziario. Il referendum confermativo, che non prevede un quorum di votanti, si terrà quasi sicuramente nella primavera del 2026. Tra pochi mesi, quindi, la parola passerà agli elettori. E saranno mesi infuocati, senza esclusione di colpi.

I contrari, Anm in testa (e la sinistra in coda), cercheranno di dimostrare che la riforma mina l’autonomia della magistratura sottoponendola al controllo del governo. Tesi che traballa di fronte al testo dell’art. 104: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”. Tant’è che Nicola Gratteri, ad esempio, è costretto ad esercitare l’arte divinatoria per sostenerla (“tra vent’anni il pm sarà ineluttabilmente sottomesso al potere esecutivo).

Per altro verso, è difficile contestare che la separazione delle carriere è la logica conseguenza del processo accusatorio voluto dal ministro socialista Sebastiano Vassalli (1988), nonché del principio enunciato nell’art. 111 della Costituzione (emendato nel 1999): “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale”.

Ma, caro direttore, chi scrive non è né un giurista né un avvocato, e quindi si limita a ricordare che nei tanti paesi europei in cui in vige la separazione delle carriere non pare che “lo spirito delle leggi” di Montesquieu sia in pericolo. Il rischio è un altro, e riguarda entrambi gli schieramenti. È quello di trasformare un referendum in cui la posta in gioco è una giustizia più giusta, un più alto livello di civiltà giuridica, in uno scontro rivolto esclusivamente a decretare la sconfitta o la vittoria di Giorgia Meloni.

Personalizzare la prova referendaria, magari anche celebrandola come la vendetta postuma di Silvio Berlusconi, sarebbe un grave errore politico. E l’esperienza del 2016 (“Referendum Renzi”) dovrebbe suggerire ai sostenitori della riforma una strada diversa. La strada della spiegazione ai cittadini, con parole semplici e esempi concreti, dei benefici che possono trarre da una vittoria del Sì. Benefici sociali, economici e umani.

Se poi proprio si volesse scegliere un nome-bandiera alla cui memoria intitolare la riforma, mi permetto di suggerire quello di Giovanni Falcone. In un’intervista rilasciata a Mario Pirani (3 ottobre 1991, la Repubblica) poco prima della strage di Capaci, con chiarezza cristallina illustrava così le ragioni della riforma:

“Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obbiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti.

Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell’Esecutivo. È veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del Pm con questioni istituzionali totalmente distinte”.

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