I resti di quello che fu il “movimento studentesco” escono in disordine e senza speranza dalle aule occupate con orgogliosa sicurezza. Proprio così oggi gli studenti universitari “marcano visita”, rivendicano un aiuto psichiatrico (ricordate il psichiatric help di Linus?).
Il nemico non è più il capitalismo, la scuola autoritaria, lo sfruttamento del lavoro (“Studenti, operai! Uniti nella lotta!”) e la scuola di classe (“sapesse, Contessa, che cosa mi ha detto un caro parente dell’occupazione, che quella marmaglia rinchiusa là dentrodi libero amore facea professione. Del resto, mia cara di che si stupisce? Quando l’operaio vuole il figlio dottore, si figuri che ambiente che ne viene fuori, non c’è più morale Contessa!). Era “Contessa” la canzone dei giorni di lotta (peraltro il suo autore finì per lavorare con Silvio Berlusconi: pecunia non olet); oggi gli studenti non la conoscono neanche.
Gli interventi dei loro rappresentanti, in occasione delle inaugurazioni degli anni accademici (alla presenza sovente del Capo dello Stato, sempre del ministro Anna Maria Bernini) sono un lugubre piagnisteo per lo stress che gli studenti subiscono… a studiare. La causa scatenante – che a loro dire può portare al suicidio – è la competizione, la rincorsa del voto, della borsa di studio, l’impegno per superare le selezioni, l’assillo meritocratico dell’ambiente familiare e sociale. Negli anni scorsi la “nuova linea” venne sperimentata da due studentesse a Pisa (se ben ricordo); .la circostanza venne segnalata come una notizia insolita e curiosa. Quest’anno tutti gli studenti e le studentesse che sono intervenuti nel corso delle inaugurazioni degli anni accademici hanno suonato la stessa musica e usato i medesimi toni. E – on va sans dire – hanno riscosso l’attenzione dei media, fino a essere chiamati in quasi tutti i talk ad esporre la triste condizione dello studente e della studentessa.
Ha aperto le danze Emma Ruzzon che si era già fatta riconoscere nel suo intervento all’inaugurazione dell’anno accademico dell’anno scorso alla presenza del presidente Sergio Mattarella. In quell’occasione aveva accusato l’Italia di non essere un Paese libero, perché il Senato non aveva approvato il ddl Zan; per di più i senatori contrari si erano persino azzardati ad applaudirne l’affossamento. Nessuno le aveva insegnato che è invece un’espressione di libertà esercitare il proprio dissenso nei confronti delle verità che vengono imposte in barba ad ogni principio del diritto naturale che non può essere sviato dal diritto positivo. Quest’anno. Ruzzon, davanti al ministro Anna Maria Bernini, ha evocato una nuova strage degli innocenti (gli studenti, appunto) che sarebbero vittime, fino al suicidio, delle logiche competitive: “Siamo stanchi di piangere i nostri coetanei – ha affermato la presidente del consiglio degli studenti – e vogliamo che tutte le forze politiche presenti si mettano a disposizione per capire, insieme a noi, come attivarsi per rispondere a questa emergenza, ma serve il coraggio di mettere in discussione l’intero sistema merito-centrico e competitivo“. Tutto ciò dopo aver deposto sul leggio la corona di alloro. “La corona d’alloro – ha spiegato – non deve significare l’eccellenza, la competizione sfrenata. Deve essere simbolo del completamento di un percorso che è personale, di liberazione attraverso il sapere. Abbiamo scelto di mostrarla qui con un fiocco verde, quello del benessere psicologico, per tutte quelle persone che non potranno indossarla, per tutte le persone che sono state o stanno male all’idea di raggiungere questa corona. Stare male non deve essere normale”. Questa esibizione, oltre che gli inviti ai talk show, le hanno procurato un posto d’onore al XIX Congresso della Cgil, dove ha rappresentato il disagio degli studenti in coppia con una giovane ingegnere che si lamentava della precarietà.
Ma il clou, almeno per ora, lo si è avuto lo scorso 4 aprile alla inaugurazione del 632° anno accademico dell’Università di Ferrara, presenti anche qui, il Capo dello Stato e il ministro, i quali, per educazione, quando prende la parola la presidente del consiglio degli studenti, evitano di dire: “Grazie, abbiamo già dato”. Alessandra De fazio ha affermato: “Sono un fallimento, non merito di vivere. Queste non sono le parole che titolano l’ennesimo giornale che riporta quotidianamente, accanto alle morti delle nostre compagne, l’esaltazione di una studentessa che riconosce nel sonno un ostacolo per laurearsi nella metà del tempo. Queste parole sono uscite dalla stessa bocca della persona che oggi sta di fronte a voi, queste parole le ha dovute sentire e subire mia madre quando subito dopo il test di medicina ho percepito di non avercela fatta, per la seconda volta”. Poi di seguito: “Che esagerazione per un test che si può riprovare l’anno successivo – ha continuato la studentessa – ma come possiamo pensare che un percorso universitario debba essere dettato dai nostri tempi mentre siamo bombardati costantemente dal mito della performatività e da una competizione illogica che ci sbatte in faccia il successo degli altri e ci fa tirare un sospiro di sollievo quando qualcuno fallisce al posto nostro”. E ancora ha aggiunto in un crescendo di ottoni: “Citando Alessandro Barbero, in altre epoche credevano nelle streghe, noi crediamo nella meritocrazia. Si pensa banalmente che il merito possa essere un criterio equo, sostituto del vecchio privilegio, del quale invece ha ereditato tutto il divario e la disparità. Le borse di studio sono un ricatto. Se tutte abbiamo lo stesso diritto perché qualcuna dovrebbe essere costretta a tenere tempi più serrati solo perché più povera? Il sistema universitario è classista. È un’istituzione che disconosce la nostra umanità piegandosi ai ricatti del mercato (ci mancava il mercato! ndr). Le università promuovono le illusioni di garantirci pari strumenti”. “Ci viene data la possibilità di redimerci dalla nostra condizione di povertà, come se fosse una colpa, a patto di dimostrare di essere meritevoli, conseguendo risultati eccellenti entro periodi di tempo cadenzati e ristretti. Le studentesse e gli studenti non sono il mezzo per sostentare la formazione, il diritto allo studio deve risiedere nell’emancipazione collettiva e deve essere parte integrante e inscindibile del welfare sociale pubblico, gratuito e garantito dallo Stato per tutte”.
E l’articolo 34 della Costituzione (I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi) dove lo mettiamo? Alessandra De Fazio non si è neppure posta il problema: “Chiediamo – ha detto ancora in un tripudio oratorio – che il nostro Paese consideri il benessere psicologico diritto fondamentale dell’individuo, al pari della salute fisica, sia con l’introduzione dello psicologo di base, ma anche con una riforma sistemica che decostruisca i pilastri meritocratici. Non siamo più disposti – ha concluso Alessandra – ad accettare senso di inadeguatezza, depressione e persino suicidi a causa delle condizioni imposte da un sistema malato che baratta la persona per la performance. Non ci dobbiamo meritare di studiare, di avere una casa e delle cure”.
Come ha osato questo governo ad aggiungere la parola “merito” addirittura al nome del ministero?
Ma in fondo gli studenti e i loro rappresentanti qualche ragione ce l’hanno.
Arrivano automaticamente al diploma senza bocciature, esami di riparazione, prove di fine corso di studi e di maturità. Si portano appresso gravi lacune fin dalla scuola primaria (fateci caso a come scrivono i giovani di oggi: quando va bene usano solo il carattere stampatello, mentre il linguaggio è quello degli sms). Provate ad assegnare una tesi ad uno studente universitario e vi toccherà, in primo luogo, di correggere – con buona pace di Fabio Rampelli- l’uso dell’italiano. L’esame di maturità al liceo era il più difficile della vita; ora è una prova che viene superata con quote bulgare di promossi, al pari dei voti presi al congresso da Maurizio Landini.
All’Università le lacune si sommano tutte e magari – esame dopo esame (quasi sempre fatto con dei quiz come se fosse la prova di teoria per la patente di guida) – si verifica quel minimo di selezione sempre rinviata nei precedenti corsi di studio. Alla fine, arriva anche la laurea. Poi succede che i laureati devono sostenere più volte gli esami di abilitazione per le professioni che lo richiedono. È capitato un caso in cui nessuno dei candidati superò l’esame per entrare in magistratura. A questo livello i passaggi si fanno più selettivi.
Poi si cerca di entrare nel mercato del lavoro. E qui casca l’asino, perché oltre alla laurea le imprese chiedono un minimo indispensabile di conoscenze professionali che non sono state acquisite. Comincia allora la telenovela del precariato, perché viene un momento nella vita nel quale diventa difficile “decostruire i pilastri meritocratici”.