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Ebrei

La questione ebraica vista dagli ebrei e dai gentili

Il Bloc Notes di Michele Magno

“Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo” (Primo Levi, “L’asimmetria e la vita”. Scritti 1955-1987).

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“La ricerca del sapere fine a se stesso, un amore quasi fanatico per la giustizia e il desiderio di indipendenza personale: sono questi i tratti della tradizione ebraica che mi fanno rendere grazie alle stelle perché ne faccio parte” (Albert Einstein, “Come io vedo il mondo”, 1934).

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Secondo Theodor Adorno, ogni spiegazione economica e sociale dell’antisemitismo si rivela sempre inadeguata, perché le radici del fenomeno si spingono fino alla profondità più oscura e misteriosa della nostra civiltà. Si pensi a certi personaggi di una sedicente sinistra che, pur condannando la mattanza di Hamas, subito dopo le accostano le nefandezze degli israeliani a Gaza e in Cisgiordania. Un specie di “se la sono cercata”, di implacabile legge del contrappasso. Al congresso di Colonia del 1893, il dirigente della socialdemocrazia tedesca August Bebel definì “socialismo degli imbecilli” la propaganda e sentimenti antigiudaici presenti nel movimento operaio dell’epoca. Oggi il movimento operaio non c’è più, però gli imbecilli sono sopravvissuti.

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“Che cosa rappresenta per gli ebrei lo stato d’Israele? Innanzitutto, la fine di duemila anni d’esilio. E poi la certezza che, qualunque cosa succeda, c’è un luogo al mondo dove si sarà sempre accolti, dove non ci sarà mai l’antisemitismo” (Elena Loewenthal, “Gli ebrei questi sconosciuti”, 1996).

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Nel 1982 ero il responsabile del dipartimento internazionale della Cgil. Dopo l’invasione israeliana del Libano, una parte dei suoi vertici rischiò di perdere la bussola, facendo confusione tra Menachem Begin e Mosè. Si indebolirono così le difese contro l’antisemitismo strisciante di alcune sedicenti avanguardie della classe operaia, sovversive e massimaliste, presenti anche nel movimento sindacale italiano. Furono i loro militanti a depositare una bara davanti alla Sinagoga di Roma, scandendo slogan forcaioli e razzisti. Era il 25 giugno 1982, in cui era stato indetto uno sciopero generale per il lavoro e il Mezzogiorno. Un corteo immenso stava attraversando il Lungotevere, e pochi si accorsero di quell’atto ignobile. Ma, fatto ancora più grave, chi se ne accorse non reagì. Molti dirigenti sindacali sottovalutarono la gravità dell’episodio La lettera con cui Luciano Lama replicava alla condanna del rabbino Elio Toaff (alla cui stesura contribuì chi scrive), conteneva dei passaggi discutibili. La verità è che allora molti di noi erano vicini alle sofferenze del popolo palestinese e lontani dalle ragioni di Israele. Ma Lama era un uomo retto e grande leader sindacale, e avviò immediatamente una battaglia politica e culturale volta a stroncare ogni fenomeno di ostilità antigiudaica. Ad esempio, nell’aprile del 1983 la Camera del lavoro milanese organizzò un importante incontro con la comunità ebraica della capitale lombarda- il primo nella storia del sindacalismo confederale italiano- per discutere sulle radici, economiche e sociali, dell’antisemitismo. Un confronto quasi obbligato, perché lo sgomento suscitato dal massacro di Sabra e Shatila del 18 settembre 1982 aveva riesumato gli stereotipi antisemiti più antichi. Non si trattava certo di una novità: il paragone fra gli israeliani e i nazisti, i richiami al Dio cattivo di Israele, la sovrapposizione fra i termini israeliano, ebreo e sionista, erano comparsi già negli anni Cinquanta.  Beninteso, non sto affermando che la sinistra radicale è geneticamente antisemita, ma l’intolleranza nei confronti della minoranza ebraica non è estranea all’orizzonte ideologico dei suoi cattivi maestri. Come stiamo vedendo nelle manifestazioni di queste settimane, e non solo in Italia.

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Nell’epilogo di “Eichman in Jerusalem. A Report on the Banalty of Evil” (1963), Hannah Arendt si rivolge direttamente al funzionario nazista: “Tu ci hai narrato la tua storia, presentandola come quella di un uomo sfortunato […]. Ma anche supponendo che la sfortuna ti abbia trasformato in un involontario strumento dello sterminio, resta sempre il fatto che tu hai eseguito e perciò attivamente sostenuto una politica di sterminio. La politica non è un asilo: in politica obbedire e appoggiare sono la stessa cosa”. Fino al sedicesimo era frequente la rappresentazione della sinagoga come una donna dagli occhi bendati. La benda alludeva alla cecità degli ebrei, e a quel simbolo veniva contrapposta l’immagine della chiesa, in forma di donna dallo sguardo libero e illuminato dalla grazia di Dio. Più tardi, su questa immagine si trasferì il simbolo umanistico e cristiano di una giustizia imparziale e pubblica.I molti, troppi, che obbediscono ai cattivi maestri e appoggiano l’idea che Israele va cancellato dalla cartina geografica, non hanno capito che oggi proprio la sinagoga incarna -contro di loro- l’immagine della giustizia bendata.

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“[…] Finalmente ho capito perché gli arabi odiano tanto gli ebrei. Non è la razza. Non è la religione, che li sobilla contro di essi. È l’atto d’accusa, è la condanna, che gli ebrei rappresentano, agli occhi di tutto il mondo, qui nelle loro terre, contro la loro ignavia, la loro mancanza di buona volontà, d’impegno nel lavoro, di entusiasmo pionieristico, d’intelligenza organizzativa. Israele dimostra ch’è proprio questo che manca alle zone depresse del Medio Oriente. Sono gli uomini che le abitano, non la natura o il buon Dio, che le hanno rese tali. […] In trent’anni di dura fatica, ogni singolo, posponendo il proprio tornaconto individuale all’interesse di tutti, ogni generazione sacrificando il proprio comodo al bene di quelle successive, della zona depressa palestinese hanno fatto la pianura padana. […] È stata questa meravigliosa avventura umana che mi ha ipnotizzato, facendo passare in seconda linea il mio interesse (e purtroppo anche quello del mio giornale) sulla politica mediorientale. Perché essa rispondeva proprio, con fatti clamorosi e incontestabili, alla domanda che mi ero sempre posto: e cioè se siano i paesi a fare gli uomini, o gli uomini a fare i paesi. Amici miei, sono gli uomini a fare i paesi: gli uomini e soltanto gli uomini, la loro volontà, la loro fatica, la loro capacità di credere e di sacrificarsi per ciò che credono. Le zone depresse esistono soltanto lì, nel loro animo rassegnato, nel loro muscoli fiacchi, nel loro indolente cervello, nella rinunzia alla lotta, nella mancanza di un senso religioso della vita, e quindi nella disposizione a trarne soltanto profitti e godimenti immediati. Ecco, questo mi ha dimostrato Israele” (Indro Montanelli, La domenica del Corriere, 1960).

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