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La patria di Machiavelli, Pulcinella e Arlecchino

Il Bloc Notes di Michele Magno

Nel 1822 Gioachino Rossini rende visita a Beethoven nella sua casa di Vienna, una specie di tugurio dal soffitto sfondato e col pitale sempre sul pianoforte. Dopo uno scambio di opinioni sulle tendenze musicali dell’epoca, il genio di Bonn lo congeda invitandolo a comporre in futuro solo opere buffe perché gli italiani non erano fatti per l’opera seria.

Anche se sette anni più tardi il genio di Pesaro lo avrebbe clamorosamente smentito con il “Guglielmo Tell”, un capolavoro del teatro romantico, l’aneddoto è significativo. Infatti, attesta la circolazione nel milieu culturale asburgico di un’idea polemica del nostro carattere nazionale, sordo alle profondità del dramma. Dopo la sconfitta di Hitler, nel “Doctor Faustus” (1947) Thomas Mann riprende questa rappresentazione dell’anima prosaica e “spensierata” dei discendenti di Enea e la contrappone a quella del popolo tedesco, impavido nel percorrere fino in fondo il suo destino catastrofico.

Cesare Garboli nei suoi “Ricordi tristi e civili” ha smontato in un paio di paginette magistrali la mitologia del teutonico descritta -in termini ora dionisiaci ora nibelungici- dal grande romanziere di Lubecca. Non c’è dubbio, tuttavia, che così ci hanno visto, e ancora ci vedono, gli innumerevoli viaggiatori scesi dal nord per godersi il mare e il sole che tanto ci invidiano: politicamente cinici ma deboli, sentimentali, festevoli; inclini a recitare, cantare, ridere. Insomma, come la patria di Machiavelli per chi ha studiato, o di Pulcinella e Arlecchino per gli illetterati. È però mai possibile che sia davvero questo il paese che ha subito la tragedia del regime mussoliniano e in cui oggi l’antifascismo è diventato una polvere, la forfora che si spazza via dall’abito prima di una passeggiata?

La domanda non è oziosa, soprattutto in tempi in cui l’atavico istinto gregario della maggioranza degli italiani è stato risvegliato da leader politici che dichiarano di fottersene del passato. Ma la politica senza la storia, osservava Alessandro Manzoni, è come un cieco senza una guida che gli indichi la via. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se quella del governo Conte rischia di andare a sbattere contro un muro.

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Nella seconda balza del Purgatorio (Canto XIII), Dante raffigura gli invidiosi con gli occhi cuciti da un filo di ferro. Il contrappasso analogico è chiaro, in quanto vissero guardando sempre con rancore il proprio prossimo, godendo delle sue disgrazie: “Fui delli altrui danni lieta assai”, confessa la senese Sapìa perché i suoi concittadini ghibellini erano stati sconfitti dai guelfi fiorentini nella battaglia di Colle Val d’Elsa (1269). Quello che oggi i tedeschi chiamano “Schadenfreude” non è certo un sentimento nuovo, come mostra il padre della nostra lingua.

Lo abbiamo visto all’opera sui social network nella valanga di tuìt festosi per le fiamme che divoravano la cattedrale di Notre Dame. C’è stato perfino chi, di fronte alle cospicue donazioni promesse per la sua ricostruzione dai due big francesi del lusso, li ha dipinti come grassatori del popolo in cerca di pubblicità a buon mercato. La verità è che, se il (forse) più odioso dei vizi capitali affonda le sue radici nella mano omicida di Caino, nell’era del populismo trionfante l’invidia sociale sta diventando un fenomeno di massa, che porta immancabilmente al disconoscimento del valore della solidarietà e della stessa carità cristiana. È qui che un peccato mortale per il buon Dio si può trasformare in un veleno letale per la democrazia. Sono tempi bui.

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