Il dibattito che si è sviluppato, durante i lavori degli Stati generali sulla natalità, ha evidenziato le profonde fratture ideal-ideologiche che caratterizzano il mondo politico italiano. Da una parte la sinistra, con le sue suggestioni mondialiste, dall’altra la destra, più attenta nel difendere i valori specifici della Nazione. E nel mezzo un difficile, se non impossibile, tentativo di mediazione. All’origine del tutto, una lunga storia che ancora non ha trovato momenti di riconciliazione nazionale. Con una destra che è ancora figlia del Risorgimento e della fine cruenta del primo tentativo di globalizzazione, che portò alla Grande guerra. Ed una sinistra che si muove su un terreno completamente diverso.
Il DNA di quest’ultima è segnato da un connubio culturale, la cui forza intrinseca le ha consentito di superare le altre contraddizioni di natura etica-religiosa. Da un lato l’internazionalismo. Popoli di tutto il mondo unitevi. Dall’altro l’ecumenismo e solidarismo di matrice cattolica. La Pira e Dossetti: per avere punti di riferimento. Quindi l’attenta politica di Palmiro Togliatti, tutta calibrata sulla necessità di giungere all’incontro tra il popolo comunista e le masse cattoliche, per edificare una società “progressiva” in cui il socialismo diventava un orizzonte talmente lontano, da trasformarsi in un semplice miraggio.
Questi elementi, fortemente identitari, sono destinati ad emergere ogni qual volta si parla di italiani, di europei o di altri popoli. Ciascun dei quali ha una propria identità culturale che nessuno è in grado di modificare a proprio piacimento. Basterebbe, quindi, quest’osservazione per porre fine a quella che, altrimenti, rischia di divenire un’inutile diatriba. Provate a chiedere ad un francese se è disposto a rinunciare alla Marsigliese. O ad un inglese, che guerreggia in nome di Sua Maestà britannica, di non riconoscersi nel “God save the King”. Poi c’è il caso di un premier britannico Rishi Sunak: origini asiatiche, ma una cultura che non lascia dubbio alcuno, considerato il suo curriculum.
Non tutti sono d’accordo. “Ministro Lollobrigida – ha cercato di controbattere con un tweet Simona Malpezzi, senatrice del Partito democratico – le mie figlie hanno padre tedesco, nonna croata, bisnonna olandese e un’altra estone. Come me le classifica? Prima la razza, poi l’etnia: errare è umano, perseverare… non è che magari lei ci crede davvero?”. Risponderà ovviamente Lollobrigida, se lo riterrà opportuno. Per quanto ci riguarda l’esempio non sta in piedi. Ciò che conta non è il colore della pelle, ma quello che è nella testa di ciascuno di noi. Quel complesso di elementi, quelle stratificazioni culturali, che, al tempo stesso, distinguono ed accomunano. E ci fanno reciprocamente riconoscere, a volte senza nemmeno il bisogno di parlare, in ogni singolo angolo della Terra.
In passato, prima delle grandi guerre che hanno insanguinato il ‘900, quei tratti distintivi avevano forse la consistenza di vere e proprie barriere, specie per le classi meno abbienti. I più colti, espressione in genere del ceto benestante, erano cosmopoliti. Lo Statuto Albertino, ch’era la Costituzione del Regno d’Italia, era stato scritto in francese e solo dopo tradotto in italiano. Visto che la prima lingua era incomprensibile per quel “volgo disperso” di cui il Manzoni celebrò le lodi nel coro dell’Adelchi.
Reminiscenze passatiste? Forse. Meglio comunque che rimanere prigionieri di quella logica globalista che ha dominato la fine del ‘900 e gli inizi del Terzo millennio. Durante questo periodo, i popoli non si sono uniti nel nome del socialismo, ma sono stati dominati dalla sviluppo di un capitalismo finanziario, che ha dato ragione ad Hilferding e torto a Lenin. Si è trattato di un fenomeno che ha fortemente amplificato la tendenza all’omologazione culturale, a scapito delle differenze nazionali. Ma che, alla fine, si è risolta in un forte spiazzamento e marginalizzazione dell’Occidente a favore, soprattutto, dei suoi più acerrimi nemici: le autocrazie orientali.
Agli inizi degli anni ‘80, quando il fenomeno aveva manifestato i suoi primi vagiti, il peso dell’Occidente sull’economia mondiale (quota di reddito mondiale) era pari 63 per cento, contro il 37 per cento delle economie emergenti. Lo scorso anno questo rapporto è risultato rovesciato: 42 per cento i primi, 58 per cento i secondi. E che non si tratti di semplici arzigogoli statistici è dimostrato da quanto Vladimir Putin sta facendo e Xi Jinping sta favorendo, seppure con tutti gli accorgimenti dialettici di una cultura millenaria. Se questi sono stati i grandi risultati del mondialismo e dell’internazionalismo, legati agli sviluppi della globalizzazione, l’inizio di una sana riflessione, da parte della sinistra, dovrebbe essere più che doverosa. Per rimettere al centro valori che forse, in passato, sono stati rimossi con una fretta eccessiva.