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La guerra di parole fra Usa e Cina su virus e Hong Kong

Come è andato il colloquio tra il Segretario di Stato Usa Mike Pompeo e il direttore dell’Ufficio degli Affari Esteri del Partito Comunista cinese Yang Jiechi

 

Ogni tanto, incontrarsi a quattr’occhi fa bene, specialmente se l’ultima volta – se si esclude una breve telefonata due mesi fa – risale all’anno scorso.

Così mercoledì il Segretario di Stato Usa Mike Pompeo ha avuto un colloquio in una base dell’aviazione Usa ad Honolulu con il direttore dell’Ufficio degli Affari Esteri del Partito Comunista cinese Yang Jiechi, grand commis che Pechino ha più volte utilizzato per interagire con Pompeo.

Accompagnati dall’inviato del Dipartimento di Stato Stephen Biegun e dall’ambasciatore cinese Cui Tiankai, Pompeo e Yang hanno avuto, secondo quanto riferito da media cinesi, un “costruttivo scambio di vedute” dalla durata insolita di quasi otto ore, seguite da una breve cena.

“Entrambe le parti”, ha riferito successivamente l’agenzia di stampa Xinhua, “hanno articolato integralmente le posizioni dei rispettivi paesi, e pensano che sia stato un dialogo costruttivo. Entrambe le parti hanno concordato di agire per implementare il consenso raggiunto dai leader dei due paesi”.

Separatamente, inoltre, il Ministero degli Esteri a Pechino emetteva una nota nella quale si sottolineava come la cooperazione fosse “l’unica scelta appropriata per la Cina e gli Stati Uniti”.

“La parte cinese – prosegue la nota – è impegnata a lavorare con gli Usa per sviluppare una relazione senza conflitto né confronto, basata sul rispetto reciproco e su una cooperazione win-win”.

Anche gli Usa hanno fatto la loro parte di convenevoli, con Pompeo che ha sottolineato la necessità di “interazioni reciproche tra le due nazioni attraverso i campi del commercio, della sicurezza e della diplomazia”.

Ma dopo le formalità, è arrivato presto il tempo delle recriminazioni, com’è normale per due Paesi che sono ai ferri corti su più dossier.

La prima bordata partita dagli Usa ha riguardato il Coronavirus e le accuse rivolte a Pechino di scarsa trasparenza nella gestione della pandemia. Accuse ribadite anche nelle amene Hawaii, stando a una nota successivamente diffusa dal Dipartimento di Stato, accompagnata dalla richiesta precisa di essere più solleciti nella condivisione delle informazioni nell’eventualità di una nuova pandemia.

A quanto è dato sapere, Yang ha risposto negando seccamente ogni deficienza e definendo “responsabile” la gestione della crisi da parte del suo governo.

A quel punto le parti si sarebbero invertite, e sarebbe stato Yang a partire all’attacco puntando il dito su una serie di comportamenti indesiderabili da parte degli Usa.

Tra le rimostranze esternate, una particolarmente severa ha riguardato la situazione a Hong Kong.

Conscio che Pompeo aveva appena firmato una dichiarazione congiunta e preoccupata dei ministri degli Esteri del G7 sui disegni dell’Assemblea Legislativa di Pechino nei confronti della ex colonia britannica, Yang ha ribadito che quello di Hong Kong è un affare interno su cui la Cina sta esercitando semplicemente la propria sovranità mal tollerando le interferenze esterne dei paesi stranieri.

E siccome quando si interagisce con la Cina le cose non accadono mai per caso, ecco che a poche ore dalla fine del meeting di Honolulu i media di stato cinesi diffondevano la notizia che il parlamento cinese si sarebbe occupato nuovamente di Hong Kong il giorno successivo con la medesima intenzione di varare una legislazione sulla sicurezza che il mondo intero considera lesiva dell’autonomia dell’isola.

Alle Hawaii c’è stato spazio infine per le ultime scintille, scaturite questa volta dalla legge controfirmata da Donald Trump il giorno prima – lo Uighur Human Rights Policy Act – che introduce pesanti sanzioni contro i funzionari cinesi coinvolti in quella che non solo gli Usa considerano la feroce repressione da parte di Pechino dei musulmani uiguri dello Xinjiang.

È una legge su cui Yang ha espresso la sua “forte insoddisfazione”, lamentandosi del doppio standard degli Usa quando si ha a che fare con il terrorismo islamista.

E poiché l’argomento è rovente, a rinforzo è intervenuto anche il Ministero degli Esteri cinese con una nota che, oltre a denunciare il passo falso degli Usa, li ammonisce che “se non correggono immediatamente il loro errore” andranno incontro alle più dure “contromisure” da parte di Pechino.

A Honololu è mancato poco insomma perché il “confronto costruttivo” decantato dai media cinesi si trasformasse in zuffa. Ma questa è la regola nel tempo dello scontro frontale tra Usa e Cina, che ogni tanto hanno bisogno di vedersi a quattr’occhi per dirsi personalmente quel che pensano gli uni dell’altra.

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