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Doomscrolling

La globalizzazione della comunicazione e i suoi effetti nefasti

In rete circola di tutto e di più, l’uno vale uno smentisce le fonti ufficiali e presta credito alle fake news create per disorientare la gente e portare i cervelli all’ammasso. L'approfondimento di Francesco Provinciali

 

La globalizzazione non ha esaurito i suoi effetti nefasti e raccoglie proseliti nel mondo della comunicazione e dell’informazione. In rete circola di tutto e di più, l’uno vale uno smentisce le fonti ufficiali e presta credito alle notizie create ad arte per disorientare la gente e portare i cervelli all’ammasso.

Studiare le cause di questo fenomeno impegnerebbe molte discipline, certamente interessa la dimensione psicologica, quella sociologica, politica, economica e tutti i relativi cascami specialistici.

La compresenza simultanea della totalità della realtà dentro una dimensione spaziale planetaria e in tempo reale genera fenomeni distorsivi, poiché può essere vero tutto e il suo contrario, in genere non c’è un uso fisiologico del confronto come pure del necessario controllo. I network si rendono garanti della velocità e quantità di diffusione delle informazioni ma non della loro corrispondenza al reale, non ci sono soggetti terzi deputati al riscontro, qualunque filtro farebbe gridare allo scandalo i paladini della trasparenza.

La dimensione etica viene espunta dalla comunicazione come un orpello fastidioso e inutile: contano molto gli effetti speciali. Il concetto stesso di democrazia si sostanzia di un principio (stigmatizzato come astratto e pericoloso dallo stesso Max Weber che degli studi sulla democrazia moderna è il padre) in base al quale le opinioni che circolano saturano l’idea di uguaglianza: ognuno ha la sua e vale tanto quanto un’altra.

Si fa presto a passare dal mondo reale alla fogna virtuale, la cultura dei fatti letti attraverso l’uso del pensiero critico cede il passo a rappresentazioni effimere e artefatte della cronaca e della storia, basta seguire le narrazioni dei media o consultare il proprio smartphone.

Ideologie-ideali-idee: una sequenza circolare che non funziona più, ogni epoca si sa ha le proprie peculiarità, quella attuale sembra dominata da opinioni che si susseguono ad un ritmo frenetico, il soggettivismo solipsistico ci rende depositari di convincimenti e verità che sovente radicano nel nulla e sono pregiudizialmente preclusi ad approfondimenti e riscontri, i dettagli prevalgono sulla lettura oggettiva dei fatti, ci mettiamo molto della nostra diffidenza nell’osservare, conoscere il mondo intorno a noi, l’asse verticale del passaggio generazionale, del tramandare, dell’esperienza maturata cede il passo all’azzeramento determinato da una sorta di eterno presente prevaricante: il mondo gira vorticosamente aggrappato ad una sola dimensione temporale.

La globalizzazione della comunicazione e dell’informazione produce uno stato di sospensione senza ancoraggi: i concetti di vero, normale, reale sono deprivati del loro valore oggettivo, prevale invece un atteggiamento diffuso che va dall’indifferenza, al sospetto, alla miscredenza, al nichilismo, al negazionismo. Il dubbio – che tutto pervade e che rende incerto e labile il presente, inutile il passato e impensabile il futuro – non è cartesiano né popperiano: la diffidenza e la dietrologia finiscono proprio per negare la riflessione e l’uso del pensiero critico come fonte di conoscenza, per smentire pregiudizialmente la scienza, per leggere la realtà non per quello che è ma per come soggettivamente e per motivi imponderabili appare a ciascuno che diventa così depositario di una verità indimostrabile e aprioristicamente preclusa ad ogni riscontro.

In un tempo contratto ma pervasivo abbiamo vissuto la pandemia come sortilegio e menzogna da confutare, la scienza come costrutto liberticida, ora stiamo toccando con mano una guerra devastante generata da un’aggressione unilaterale eppure vittime e carnefici diventano soggetti intercambiabili, pare che un italiano su quattro metta in dubbio ciò che sta accadendo, i torti e le ragioni, le immagini di un orrore evidente. I dibattiti televisivi replicano con accanimento i toni del conflitto, tutto viene messo in discussione, la carneficina dei militari e dei civili non placa gli animi, li aizza. Come se si vivesse da lontano la trama quotidiana di una fiction, un teatro dell’assurdo che non ci rende consapevoli di quanto vicino e imminente, esteso e planetario sia il pericolo di un improvviso cupio dissolvi.

C’è persino chi enfatizza i sondaggi d’opinione e quelli politici: chi avanza e chi perde, chi manovra dietro le quinte, chi sulla tragedia umanitaria costruisce teoremi e quasi si diverte nell’immaginare vincitori e vinti, come pedine sulla scacchiera in cerca di primazie, ricadute elettorali, alleanze. Dubitare di tutto ci rende spettatori increduli che qualcosa di ciò che sta accadendo possa riguardare anche noi. Il gioco delle parole cala le sue carte.

“In teatro scoppiò un incendio dietro le quinte. Un clown uscì sul palcoscenico e avvisò il pubblico. Gli spettatori pensarono che si trattasse di uno scherzo e applaudirono. Il clown ripetè l’annuncio. Con sempre maggior divertimento dei presenti. È così, immagino, che il mondo finirà distrutto: tra l’ilarità generale dei buontemponi, convinti che sia tutto un gioco” (SФren Kierkegaard 1813-1855 – “Aut-aut”, 1843).

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