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Turchia Francia Erdogan Macron

La Francia, il pan-turchismo e l’islamismo

In Francia si contano attorno ai 500.000 turchi: è l'inizio del pan-turkismo?

 

Una delle conseguenze dell’inclusione indiscriminata dell’immigrazione all’interno dei confini europei è la presenza dei turchi in Francia: per alcuni si aggirano attorno ai 500.000,  includendo i turchi sunniti stabiliti in Francia nel contesto dell’immigrazione per lavoro dagli anni ’60, gli aleviti, i curdi, ma anche gli armeni e gli assiro-caldei. Altre fonti stimano il numero di franco-turchi a 700.000. Insomma, la comunità turca in Francia è lungi dall’essere un blocco omogeneo, anche se strutture come il Diyanet e il Milli Görüs che controllano la pratica del culto musulmano tendono a plasmare questa comunità a immagine della Turchia di Erdogan.

Da parte loro, le statistiche ufficiali azerbaigiane contano su una presenza di 70mila azeri sul suolo francese, un dato difficile da verificare, ma che non nasconde sullo sfondo la volontà di affermare una presenza numericamente importante in un Paese che conta per Baku. Ciò che caratterizza queste comunità transnazionali è soprattutto la loro profonda eterogeneità. Ma perché tutto ciò è fondamentale a livello della politica estera turca? Perché tutto ciò obbedisce ad un programma espansionista che intende fare di questa diaspora una leva di potere, uno strumento al servizio degli interessi del regime dell’AKP. Siamo naturalmente parlando del pan-turchismo.

Il pan-turkismo, come il panislamismo, è una leva che risponde sia a obiettivi geostrategici che a motivazioni politiche interne. Per Erdogan, è fondamentale canalizzare il sostegno nell’Europa occidentale, tenendo conto che i cittadini turchi all’estero hanno il diritto di voto e possono essere una riserva cruciale di voti quando è previsto un voto serrato. Ciò è stato particolarmente vero durante il referendum per il cambio di costituzione nel 2017, in misura minore durante le elezioni presidenziali. In generale, il pan-Turkismo esportato in Francia fa parte della sintesi turco-islamista messa in pratica in Turchia dal colpo di stato del 1980, pan-turkismo che intende rifiutare l’assimilazione, che Recep Tayyip Erdogan aveva non a caso paragonato a un “crimine contro l’umanità”. Non sorprende quindi scoprire che ciò che colpisce gran parte della comunità franco-turca è l’endogamia e il comunitarismo.

Infatti i matrimoni tra coppie dello stesso villaggio in Anatolia sono legioni anche tra i turchi della seconda o anche della terza generazione di immigrati. I legami con il paese di origine rimangono molto forti e molto marcati a tal punto che molti all’interno di questa comunità si considerano turchi di Francia prima di considerarsi francesi di origine turca. Pensiamo al fatto per esempio che un partito come il PEJ (partito dell’uguaglianza e della giustizia), è in realtà uno strumento dell’Akp in Francia e riversando sul territorio francese il linguaggio del regime di Erdogan nella più totale impunità. Non contenti di fungere da salvaguardia di Ankara, questi relè di influenza, ben stabiliti a Strasburgo presso le autorità europee, non nascondono la loro vicinanza a reti vicine ai Fratelli Musulmani. In tal modo numerosi studiosi parlano di una vera e propria alleanza turco-qatariota che mina i valori della democrazia. Un altro aspetto di estrema importanza è la presenza di nazionalisti turchi stabiliti in Francia che hanno svolto un ruolo attivo di solidarietà con il “fratellino” azero in nome del pan-turkmeno. Questo movimento radicale considera la “piccola Armenia” un’incongruenza e spera di cancellarla un giorno dalla mappa. Infatti i nazionalisti turchi continuano a riversare sui social l’odio per gli armeni, ma anche per i greci, i curdi e i turchi di sinistra. Sebbene questo movimento sia in minoranza all’interno della comunità turca, sta perseguendo una vera e propria guerriglia dell’informazione.

Tuttavia la Francia, come buona parte dell’Europa, non ha il coraggio di riconoscere, a causa del totalitarismo del politicamente corretto ampiamente diffuso presso i palazzi di Bruxelles, che l’assimilazione degli immigrati indiscriminata condotta in questi ultimi cinquant’anni ha consentito non solo la presenza di questi gruppi nazionalisti ma anche la formazione delle banlieu spesso vere e proprie enclavi di terrorismo e criminalità organizzata.

A proposito le analisi poste in essere da Raffaele Simone nello splendido saggio “L’ospite e il nemico” (Garzanti) sono illuminanti.

L’inclusione indiscriminata della immigrazione ha anche determinato la negazione della cultura occidentale. Lo dimostra il fatto che chi suggeriva di studiare ed analizzare i pericoli insiti nell’arrivo di masse di stranieri fu accusato di essere genericamente di destra se non direttamente razzista.

Neppure il fatto che l’ondata migratoria iniziata nel 2015 sia sempre più intrecciata col terrorismo ha indotto le classi politiche europee a rivedere i loro affrettati giudizi. È infatti impossibile negare il fatto che ad esempio il terrorismo, quello che ha travolto l’Europa a partire dal 2005, sia strettamente legato all’immigrazione islamica.

Una delle conseguenze dell’atteggiamento di negazione verso le implicazioni dell’immigrazione è stata la negazione del valore della propria cultura. Autorevoli rappresentanti di istituzioni nazionali e internazionali sono addirittura arrivati a rinnegare la stessa cultura della loro nazione come dimostrano in modo egregio le dichiarazioni del ministro socialdemocratico dell’integrazione svedese Mona Sahlin che, parlando in una moschea curda con il velo sulla testa, ebbe modo di dichiarare che gli svedesi erano gelosi dei curdi perché questi avevano una identità culturale mentre gli svedesi non avevano una identità di tale natura.

Infatti uno degli strumenti che sta gradualmente erodendo la sovranità delle nazioni europee è l’ideologia dell’inclusione illimitata che è ormai diventata uno degli aspetti più importanti delle democrazie occidentali.

Secondo questa impostazione chiunque avrebbe diritto a rifugiarsi in un Paese democratico per vivere, lavorare e praticare la propria religione dal momento che le istituzioni democratiche sono naturalmente inclusive. Tale pensiero ha avuto una rilevante legittimazione da parte delle chiese cristiane, ed in particolare, da parte di quella cattolica.

Pensiamo, a tale proposito, alla tesi dell’attuale Papa secondo il quale la civiltà deve costruire ponti e non muri. L’ideologia della inclusione illimitata, è sostenuta da un club radical chic in grado di influenzare profondamente le scelte della politica europea e degli organismi internazionali. È insomma un’ideologia di potere assai lontano dunque da una ideologia antagonista o rivoluzionaria come vorrebbe fare credere. La base culturale di questo orientamento è determinata da ideologie umanitarie, ireniche, cristiano-sociali, antimperialiste, anticapitaliste, no global, femministe, terzomondiste, vegane e infine animaliste.

Una delle conseguenze alle quali il dominio di questa ideologia ha portato è stata certamente il profondo cambiamento lessicale: usare termini come negri, ciechi, spazzini, donne di servizio è diventato non solo politicamente scorretto ma persino discriminante. A causa di questa ideologia considerare l’ immigrazione potenzialmente pericolosa equivale a farsi accusare di xenofobia e razzismo.

L’egemonia politico-culturale è talmente profonda e pervasiva che parlare oggi di invasioni barbariche – facendo riferimento alla caduta dell’impero romano – costituisce un’affermazione quanto meno pericolosa: le invasioni barbariche infatti vengono tradotte nel linguaggio del politicamente corretto in concetti come trasformazione, cambiamento al punto che l’impero romano non finì per crollare sotto l’urto delle tribù germaniche ma si dovette trasformare per adattarsi a questo nuovo cambiamento.

Un’altra componente fondamentale di quest’ideologia è il terzomondismo secondo la quale l’Occidente sarebbe il principale responsabile dei mali del terzo mondo. Infatti il colonialismo, l’imperialismo, lo schiavismo sono stati gli strumenti attraverso i quali l’Occidente ha cercato di porre in essere la sua politica di potenza. Naturalmente si dimentica di ricordare che gran parte dei paesi del terzo mondo – che dovrebbero rappresentare un’alternativa all’Occidente predatorio e cinico – sono la Cuba di Castro, la Cina di Mao, l’Albania comunista e l’Iran di Khomeini. Nazioni che fanno (o hanno fatto) della sovranità un tratto distintivo.

Dicevamo della Chiesa .Infatti questa ha svolto un ruolo fondamentale poiché ha sempre perseguito, prima e dopo l’unità d’Italia, una politica spesso in aperto contrasto con quella dello Stato, la cui unità e laicità sono state sempre avversate dalla prima. D’altronde non dobbiamo mai dimenticare che il Vaticano è una enclave presente sul nostro territorio e che giuridicamente è un ordinamento monarchico.
Le posizioni recentemente assunte da Papa Bergoglio non devono destare alcuna sorpresa. Basti pensare che la Caritas ha sempre sostenuto posizioni di questa natura. Proprio la Caritas, in collaborazione con Famiglia Cristiana e con l’editore bolognese il Mulino, ha pubblicato un saggio sui conflitti dimenticati. In questo volume merita particolare attenzione la riflessione di Francesco Strazzari – professore associato di scienza politica presso la scuola superiore Sant’Anna di Pisa – per il quale «in un contesto caratterizzato da incertezze e crisi economica in cui gli Stati paiono guidati dal calcolo di presunti vantaggi e svantaggi relativi, che è anche una potenza medio-piccola come l’Italia – che pure si è positivamente distinta sul versante del soccorso ai migranti in mare – tenda a riorientare la propria bussola verso gli schemi più tradizionali della condotta della politica estera. La seguente dichiarazione resa dal ministro degli Esteri italiano nel 2014 è in tal senso esemplare: “Dobbiamo recuperare senza vergognarcene un concetto semplicissimo: l’interesse nazionale. Siamo europei e alleati degli americani, ma abbiamo un nostro occhio sulla geopolitica”»
Il nostro Paese dunque non dovrebbe perseguire i propri interessi – cosa che di fatto non fa e non ha fatto come dimostra ad esempio la partecipazione del nostro paese alla guerra in Libia come abbiamo più volte sottolineato su queste pagine – ma dovrebbe, al contrario, preoccuparsi principalmente della questione degli immigrati e riorientare la propria politica estera su questa problematica facendo proprie le indicazioni della Caritas e della Sante Sede? Una proposta quantomeno originale. E che segna per l’ennesima volta la spaccatura tra Stato e Chiesa.
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